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Inizi

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Leggi tutto: IniziNel cammino che da Abramo porta a Gesù (cf. Mt 1,1-16) la vita si incrocia con una promessa non travolta neppure dalle tortuosità di genealogie prossime a smarrirsi nella selva delle deviazioni. Nella catena delle generazioni appaiono anelli strani: “Giuda generò Fares e Zara da Tamar” (v. 3), vale a dire da sua nuora che si finse prostituta perché il suocero portasse a compimento quanto aveva rifiutato di fare suo figlio Onan (cf. Gen 38); “Salmon generò Booz da Rachab” (v. 5), la prostituta di Gerico che, tradendo il suo popolo, si schierò con gli ebrei conquistatori (cf. Gs 2,8-21; 6,17); “Booz generò Obed da Rut” (v. 5), la moabita che lo sedusse nella notte sull'aia (cf. Rt 3,1-18); “Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Uria” (v. 6), ciò avvenne quando entrò e consolò Betsabea per la morte del piccolo nato da un adulterio coperto con l'assassinio (cf. 2Sam 11; 12,15-24). Successione di generazioni che giunge fino a Giuseppe lo sposo di Maria, “padre non padre” di Gesù.

Vari sono i motivi che si ritrovano in questa genealogia scandita in tre gruppi di quattordici generazioni ciascuno. Il loro numero complessivo, quarantadue, può essere letto all'insegna di un'incompiutezza - sei per sette - che attende il proprio completamento giubilare in Gesù. Oppure si può scorgere nel quattordici il valore numerico del nome ebraico di Davide, riferimento centrale dell'intera genealogia nella sua veste di luogo sorgivo della promessa messianica. Tuttavia il senso piano e inestirpabile della genealogia è di presentarsi come un cammino disteso nel tempo che consente a Gesù di diventare pienamente partecipe della nostra itinerante umanità. Quasi a voler dire che nel mezzo del cammin di nostra storia ci ritrovammo in una grotta oscura resa improvvisamente luminosa da una nascita.

In nessun altro periodo dell'anno la liturgia parla con tanta intensità il linguaggio dell'attesa come nei giorni antecedenti al Natale, la solennità che celebra una venuta. Quali sono i motivi profondi che inducono a ricordare l'avvento di Gesù con le parole proprie dell'attendere? Si tratta di una domanda pertinente e tuttavia ancora debole; qui, infatti, si tocca un nucleo che va al di là dell'ambito liturgico per conficcarsi al centro della fede. La risposta all'interrogativo si snoda lungo due itinerari: per accogliere e comprendere Gesù Cristo bisogna rivivere la lunga attesa della venuta del figlio di Davide; questa prima via si incrocia, però, con una seconda: l'accoglimento di Gesù Cristo introduce e fonda, a sua volta, un attendere. La liturgia dell'Avvento si muta in invito a rendere meno sbiadito l'intreccio tra memoria e speranza posto al cuore della fede.

In alcune brevi, quanto intense, meditazioni sull'Avvento, il biblista Raymond Brown afferma che senza riferirsi alla storia e all'attesa di Israele, testimoniata dalla Scrittura, nulla si può dire di Gesù figlio di Davide e Figlio di Dio.

Vai al libro: P. Stefani, È Natale ancor

Perchè i miracoli?

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Leggi tutto: Perchè i miracoli?Il primo miracolo compiuto da Gesù al capitolo 1 del vangelo, la guarigione del lebbroso, contiene una frase decisamente bizzarra, di cui abbiamo due versioni negli antichi manoscritti. Il lebbroso arriva e dice: “Se lo vuoi, puoi purificarmi”. Gesù, “mosso da profonda compassione”, dice: “Certo che lo voglio. Puoi essere purificato”. Secondo molti antichi manoscritti, tuttavia, Gesù fu “agitato da rabbia profonda” quando proferì quelle parole. A prescindere da quale lezione si scelga (ed entrambe hanno validi argomenti a sostegno), il punto è che Gesù sta compiendo un miracolo perché è mosso, agitato. Che sia a causa della compassione per le sofferenze di una persona, o della rabbia dinanzi alla presa che hanno la malattia e il pregiudizio sul lebbroso emarginato dalla società, egli, palesemente, non sta compiendo un miracolo per provare qualcosa.

E il tema che attraversa il vangelo nella sua interezza potrebbe essere sintetizzato molto semplicemente così: Gesù non compie mai miracoli per provare qualcosa o per uscire vincitore da una disputa. Sì, è vero, in un certo senso la storia della guarigione del paralitico mostra Gesù intento a compiere un miracolo onde dimostrare qualcosa, ma quel qualcosa è per l’appunto il fatto che non è il miracolo a costituire la questione centrale. Il miracolo è operato per spostare l’attenzione dalla guarigione alla promessa del perdono, per rafforzare l’idea che se un miracolo è strabiliante e difficile, ancor di più lo è il perdono dei peccati.

Quando i miracoli hanno luogo, allora, sono frutto dell’immediatezza della compassione o addirittura della rabbia, rabbia per il modo in cui la malattia rende prigioniere le persone, ma anche rabbia per come la bigotteria religiosa non sa lasciar trapelare la promessa di liberazione. Al capitolo 3, nella storia della guarigione di un uomo dalla mano inaridita, si dice che i nemici di Gesù lo guardano con attenzione per vedere se compirà un atto di guarigione in giorno di sabato, e che Gesù prova pena e rabbia per la visione distorta dei bisogni e delle priorità dell’uomo palesata da un siffatto atteggiamento; la sua rabbia è dovuta al fatto che la possibilità di condannare un maestro discusso risulta più importante del ripristino della capacità di guadagnarsi da vivere di un essere umano. Marco ricorda inoltre che quando Gesù fa ritorno nella propria città natale non è in grado di compiere alcun miracolo significativo. Egli viene preso in giro e respinto dai suoi concittadini, ma non risponde cercando di avere la meglio sui loro argomenti mediante miracoli. Ci viene detto che avvengono solo poche guarigioni non appariscenti, tutto qua; nessuno spettacolo (cf. 6,5).

Ancora una volta, allora, il miracolo è posto in prospettiva. Si dà per scontato che Gesù è davvero un guaritore e un esorcista, e che i miracoli che compie sono reali. Ma ciò che egli stesso si rifiuta di fare è basare la propria autorità su “segni e meraviglie”. La storia del paralitico è decisamente eloquente in proposito. È quasi come se Gesù stesse dicendo che circolano molti che fanno miracoli, guariscono ed esorcizzano, e così era davvero nel mondo in cui egli visse: un gran numero di guaritori carismatici erravano per il Medio oriente a quanto pare, e in questo senso Gesù era una figura familiare sul proscenio del Mediterraneo dell’epoca. Gesù sembra scoraggiare i suoi uditori dal trattarlo come un esponente di tale categoria semplice e familiare – un ulteriore guaritore carismatico – e pare sfidarli a riconoscere cosa vi è di unico nella sua missione

Vai al libro: R. Williams, Il Dio di Gesù nel Vangelo di Marco

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La povertà e la ricettività

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Leggi tutto: La povertà e la ricettivitàIl termine povertà, nelle nostre lingue, è associato immancabilmente a un negativo da eliminare. Etimologicamente povero rimanda a paucus (poco) e parere (partorire, generare) e si riferisce a chi produce poco o ha poco. Se si consulta un dizionario si trovano le seguenti definizioni:

– persona o gruppo che dispone di scarsi mezzi di sussistenza;
– chi dimostra indigenza o miseria;
– chi manca di qualcosa, ad esempio di acqua, di intelligenza o di salute.

Definizioni come queste qualificano il termine solo negativamente e ignorano il fatto che possono esserci delle privazioni che non sono un negativo ma un positivo, come l’essere privo di un’infezione o di un tumore, di una preoccupazione o di una depressione, dell’invidia o della violenza. Se nei dizionari la povertà è associata solo al negativo, la ragione va individuata nell’orizzonte antropologico sottinteso implicitamente: l’orizzonte identitario del Medesimo e dello Stesso in cui, come vuole il filosofo ebreo francese Emmanuel Lévinas, non c’è l’altro ma solo l’io nella ricerca instancabile di se stesso e nella permanente e persistente volontà di essere e continuare a voler essere a ogni costo. L’antropologia del Medesimo, ignara dell’altro e centrata sull’io, non è però la sola possibile antropologia. La Bibbia alla priorità dell’io sostituisce la priorità dell’Altro – l’Altro divino e l’altro umano – istitutivo di un umano il cui essere è di essere donato a se stesso e il cui tratto costitutivo è di ricevere prima che di agire e di pensare. Poiché, per la Bibbia, l’uomo è preceduto e avvolto dalla duplice gratuità divina e umana, nella sua identità si inscrive un paradosso che sottopone sia il termine povertà che quello antitetico di ricchezza a una radicale ricomprensione. Osserviamo un bambino in braccio alla mamma: è ricco oppure povero? Di fronte a una domanda come questa si coglie l’inadeguatezza dei due termini e la loro necessaria riformulazione semantica: la povertà del bambino non è assenza di beni o cose, bensì di autonomia produttiva e operativa. Tale assenza, però, non si configura come un negativo ma come un positivo, non come un meno ma come un più, non come una povertà ma come una ricchezza.

Questa trasformazione del meno in un più è operata dalla logica del dono e del gratuito, dove ciò che si ha lo si ha non da sé ma dall’altro da sé e dove l’avere è l’avere fruitivo liberato del suo substrato possessivo. Il senso della povertà biblica e della “chiesa dei poveri” è attingibile solo all’interno di questa logica della quale la Bibbia è la grande narrazione. Se tutte le religioni sono la lettura dell’umano alla luce dell’anteriorità divina donante e legiferante, questo è soprattutto vero per il racconto biblico che, mettendo in scena un Dio personale, è il solo a dischiudere realmente l’orizzonte del gratuito.

Vai al libro: C. Di Sante, La chiesa dei poveri

A chi il primo posto?

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Leggi tutto: A chi il primo posto?Non appena Gesù ebbe di nuovo annunciato: “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme” (Mc 10,33), e fatto intendere che la sua qualità di Messia stava per affermarsi in modo decisivo, Giacomo e Giovanni (cf. Mc 10,35) o la loro madre (cf. Mt 20,20) gli si avvicinarono e gli fecero direttamente, con franchezza, una richiesta a cui devono aver pensato da un po' di tempo: di ricevere, in quel regno che Gesù stava per inaugurare, i primi due posti, i migliori, e di sedere l'uno alla sua destra e l'altro alla sua sinistra. È allora che il Signore pronunciò le parole più decisive:

“Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle genti dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,42-45; cf. Mt 20,25-28).

La terminologia utilizzata ha una grandissima forza.

Nell'ordine del vangelo, come in quello delle società terrene, esistono i grandi, i primi. Nelle società terrene costoro fanno sentire il loro potere, si comportano da padroni: c'è un rapporto di ineguaglianza tra gli altri e loro, e consiste da un lato in un rapporto di sudditanza e dall'altro di dominio. La via che porta al rango di primo o di grande secondo il vangelo è tutt'altra; anzi, è l'opposto. Consiste nel cercare una situazione o un rapporto non di potere, ma di servizio, di diàkonos, “servitore”, di doulos, “schiavo”, uomo di fatica. Questi due termini occupano un posto assolutamente centrale nelle categorie che servono a definire l'esistenza cristiana. La diakonìa, ossia il porsi, il comportarsi e l'agire da servitore, appare, nell'insieme del Nuovo Testamento, coestensiva e concretamente identica alla qualità di discepolo, di uomo afferrato da Cristo e vivente in dipendenza da lui. Il titolo di doulos, schiavo, servo (di Dio), che non aveva nessun significato religioso nel mondo pagano, esprime quanto mai bene questa appartenenza totale a Cristo, che ci costituisce nel contempo servi di tutti i nostri fratelli. Gesù stesso ricollega espressamente il comportamento di servizio, e non di potere, che stabilisce come legge per i discepoli, al proprio comportamento, di lui che è il loro maestro.

Il discepolo infatti non è semplicemente uno scolaro che riceve un insegnamento: è uno che imita il maestro e ne condivide la vita. Ora, Gesù ha vissuto la propria missione e l'ha definita con i termini isaiani del Servo. Egli non è venuto a “signoreggiare”, a farsi servire, ma a servire come uno schiavo, e addirittura a vivere la condizione dello schiavo fino al punto veramente specifico di essere venduto, di farsi lui stesso l'equivalente di un prezzo di riscatto... Poiché la loro vita è tutta nell'appartenenza a Cristo, tutta da lui e tutta per lui, i discepoli non si innalzano se non abbassandosi, seguendo Cristo nella via della discesa, del dono di sé e della perdita di sé, di cui san Paolo ha tracciato la traiettoria vittoriosa di Dio alla morte sulla croce e dalla tomba alla gloria.

Vai al libro: Y. M-J. Congar, Per una chiesa serva e povera

Apertura all’altro, anche nella morte

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Leggi tutto: Apertura all’altro, anche nella morteCiascuno nell’inscrivere il limite della morte dentro di sé – evitando quindi di credere che ci sia una seconda o anche una terza vita per fare ciò che non è stato fatto e vissuto in questa prima e unica vita –, è chiamato a vivere il presente il più intensamente possibile. Prendere sul serio la morte non porta allo scoraggiamento o alla rinuncia, dato che si pensa che tutto è vanità (come scrive il Qohelet), così come non conduce a uno stato febbrile. Anzi, quest’ultimo nasce proprio dal rifiuto di considerare la morte come esito di una vita piena e dal mutismo su questa realtà ineluttabile. L’intensità di vita che si libera quando si prende in considerazione la morte va letta non in termini di quantità delle cose che si fanno, ma di audacia nell’assunzione del rischio. Questo riguarda sia le relazioni e gli amori, sia le realizzazioni creative e l’impegno alla solidarietà, sia gli sforzi per far avanzare l’umanità verso la pace e la giustizia per tutti. Di queste dinamiche beneficiano il vicino e il lontano, lo sconosciuto e noi stessi in prima persona. In questa prospettiva il pensiero della morte è un’apertura all’altro, una trasmissione della passione per la vita.

Questa concezione della morte che conferisce valore alla vita può fondarsi, per i religiosi, sulla morte vissuta da Cristo, della quale gli evangelisti hanno svelato la fecondità. La croce è presente e si rende necessaria per concepire morte e vita. La croce è il luogo in cui è parso che la morte avesse la meglio su Dio. Essa ricorda incessantemente al credente la finitudine radicale, e allo stesso tempo afferma che la morte non avrà l’ultima parola, perché la resurrezione è vicina alla croce. Quest’ultima esprime allo stesso tempo l’ineluttabile finitezza e il superamento di tale frontiera. In questo paradosso la croce non è soltanto uno strumento di tortura, e ancor meno un appello a rassegnarsi alla sofferenza o a lasciarsi torturare: è la porta dolorosa per accedere al sepolcro vuoto di pasqua.

Vai al libro:
J.-C. Lavigne, Perché abbiano la vita in abbondanza

Per approfondire:
G. Boselli, Evangelizzare la morte

Il matrimonio

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Leggi tutto: Il matrimonioL’amore è uno dei più bei doni di Dio. Illumina tutta la nostra esistenza. Trasforma tutto. È come un sole che riempie di colore, calore e gioia tutto quello che intraprendiamo. Essere innamorati trasforma radicalmente tutti i nostri comportamenti, sia nei momenti di presenza della persona amata che in quelli in cui è assente. “Cosa posso fare per fargli piacere: un regalo? una sorpresa? una cenetta a tu per tu? Come mi devo vestire per piacergli? ...”. La gioia di amare e di essere amati trasforma anche i dettagli più piccoli della vita quotidiana, quelli che fino a quel momento sembrava non rivestissero alcuna importanza ai nostri occhi. I momenti di attesa della presenza della persona amata si trasformano in momenti intensi di gioia, speranza, felicità pregustata. Anche gli eventi più insignificanti della vita quando sono condivisi, vissuti a due, improvvisamente assumono un valore completamente diverso.

Amare ed essere amati sono i due aspetti di una storia che si declina in una miriade di modi da quando l’umanità esiste. La gioia della persona che viene riconosciuta come unica nella moltitudine immensa degli esseri umani, la gioia di chi ha scelto qualcuno di molto particolare nella gran massa dei ragazzi e delle ragazze che s’incontrano, sono esperienze di felicità che si vorrebbe prolungare all’infinito tanto sono forti e luminose nella nostra esistenza. Un nome entra nella nostra vita e immediatamente si apre per noi un mondo nuovo …

L’edificazione di una coppia non richiede che si abdichi alla propria personalità, ma molto semplicemente un transfert delle priorità, indispensabile alla costruzione di un progetto comune. Le nuove priorità possono essere definite a due, di comune accordo, nel desiderio di dare felicità all’altro. Davanti a una qualunque situazione nuova (un trasloco, un cambiamento di città o di professione) ci si trova forzatamente di fronte a rinunce da accettare e a nuove scelte da fare e da accogliere. Questo richiede una presa di coscienza nella quale ci si può aiutare reciprocamente. È la prima base per la costruzione di una coppia. La disponibilità ad accettare situazioni nuove è garanzia di felicità e di equilibrio.

“Donami, Signore, un cuore nuovo. Metti in me uno spirito nuovo”: in fondo è questa la richiesta a Dio di due giovani che decidano di percorrere insieme il cammino della vita. Un cuore nuovo non è mai un dato acquisito. Bisogna senza sosta modellarlo e rinnovarlo perché le circostanze della vita richiedono una continua capacità di adattamento.

Vai al libro:

B. e B. Chovelon, L’avventura del matrimonio