Sintesi e foto del 9 settembre 2015

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XXIII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
MISERICORDIA E PERDONO
Bose, 9-12 settembre 2015
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

Il XXIII Convegno ecumenico di spiritualità ortodossa sul tema “Misericordia e perdono” si è aperto oggi alle 9.30 con il saluto a tutti i partecipanti di fr. Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, a cui è seguita la lettura dei messaggi augurali del Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartholomeos I e di Papa Francesco

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Anba Epiphanius - Il perdono nella vita di padre Matta El Meskin

XXIII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
MISERICORDIA E PERDONO
Bose, 9-12 settembre 2015
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

di + anba Epiphanius di san Macario, Wadi El Natrun

Dal momento in cui sono entrato al monastero di san Macario, ho imparato il significato del perdono. Una delle cose più meravigliose che ho sentito dagli anziani del monastero, e specialmente da padre Matta El Meskin, è l’esegesi delle parole del Signore Gesù del Vangelo secondo san Matteo, capitolo 18, versetti dal 15 al 17. Subito dopo aver raccontato la parabola della pecora smarrita, come il pastore lasci le novantanove pecorelle per andare in cerca di quella smarrita, dice il Signore Gesù:

Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va' e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano (Mt 18,15-17)

Perché nostro Signore Gesù ha collegato la pecora smarrita al fratello che pecca? Avrete notato che nostro Signore non chiede a chi è in torto di andarsi a scusare, ma al contrario, chiede alla parte offesa di prendere l’iniziativa della riconciliazione. Se questa non avviene, l’offeso deve chiedere aiuto a qualche altra persona affinché faccia da mediatore. Altrimenti, a dover intervenire è la Chiesa. Nel caso in cui tutti questi sforzi fallissero “sia per te come il pagano e il pubblicano”. 

Per capire il senso di “pagano e pubblicano” dobbiamo far riferimento alla stessa vita di nostro Signore Gesù che è stato definito “amico di pubblicani e peccatori” (Mt 11,19). Eccolo andare in fretta a cenare con Zaccheo, il capo dei pubblicani, a casa sua. Conseguenza di questo incontro fu la conversione di Zaccheo il quale credette in Cristo, insieme con tutta la sua famiglia (Lc 19,1-10).

Quando il Signore Gesù chiamò alla sequela Matteo il pubblicano, andò a cenare con lui a casa sua: “Mentre stava a tavola in casa di lui, anche molti pubblicani e peccatori erano a tavola con Gesù e i suoi discepoli; erano molti infatti quelli che lo seguivano. Allora gli scribi dei farisei, vedendolo mangiare con i peccatori e i pubblicani, dicevano ai suoi discepoli: «Perché mangia e beve insieme ai pubblicani e ai peccatori?»” (Mc 2,15-16).

Ancora, vediamo il Signore lodare il pubblicano: “Io vi dico: questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato” (Lc 18,14) e loda il Samaritano dicendo: “Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero” (Lc 17,18).

Giungiamo, quindi, alla conclusione che, se tuo fratello non accetta la tua iniziativa di riconciliarvi, devi considerarlo come un pagano e un pubblicano, cioè una persona fragile per la quale Cristo è venuto per salvarla e che merita molto di più il tuo amore.

Non è forse questa la storia di tutta la creazione? Quando il primo uomo peccò contro Dio, Dio stesso si mise a cercare la sua pecora smarrita: “Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: «Dove sei?»” (Gn 3,9). Adamo accusò Eva ed Eva, a sua volta, il serpente. Ma Dio inviò i profeti e gli apostoli in modo che “ogni questione si deciderà sulla dichiarazione di due o tre testimoni” (2Cor 3,1). In seguito, ha inviato la Chiesa sotto forma di sacrifici, prescrizioni e leggi. 

Infine, dopo il fallimento di questi tentativi di riconciliare questa creazione smarrita e perduta, il Signore l’ha trattata come si tratta un pagano e un pubblicano, cioè come una creatura debole che non ha alcuna capacità né di riconciliarsi né di ritornare a lui. È stato perciò costretto a lasciarsi alle spalle le novantanove pecore che non si erano smarrite e andare a cercare la perduta.

A questo proposito, abba Matta El Meskin dice: “Cristo non ha trascurato i sentimenti della parte che ha subito il torto, né ha dato poca importanza alla slealtà commessa nei nostri confronti. Ma i suoi occhi erano fissi sull’amore e la misericordia che tutto scusa e tutto sopporta, affinché possiamo assomigliare al Padre che ci tratta con molta delicatezza e ci perdona tantissime cose. In ultima analisi, Cristo tiene fisso lo sguardo sul perdono totale che gli causerà sofferenze, angoscia, la crocifissione, la lacerazione della propria carne e infine la morte, come prezzo per i nostri gravi peccati”1

Dice anche: “La legge del Regno dei Cieli, infatti, è che a vivere sarà l’oppresso e colui che conquista è colui che sarà sconfitto. Le cose sono capovolte in maniera straordinaria. “Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l'altra” (Mt 5,39). In altre parole, a chi mi dà uno schiaffo sulla guancia destra io rispondo: “Grazie”, e poi proseguo per la mia via. Questa è la via che porta al Regno dei Cieli. La mia meta è preziosa e il mio cammino importante. Se mi fermo a litigare, ciò significherà per me la fine”. 

Altrove scrive Matta El Meskin: “Con la penna avrei potuto facilmente difendermi e convincere le persone. Ma in quello stesso momento, avrei buttato via da me il giogo di Cristo e sarei ritornato a essere un laico. Invece sono un monaco! Noi dobbiamo sopportare le persecuzioni e le tribolazioni. Senza la parola di Dio, l’uomo non smetterebbe di gridare, lamentarsi e piangere. Per me è stata un balsamo, una fasciatura, e un bravo medico che mi ha fatto entrare nel suo ambulatorio mentre ero a pezzi, e mi ha fatto uscire sano e ricomposto. Ne sono uscito più sereno di quando vi ero entrato. La parola di Dio è stata la mia consolazione giorno e notte. Come dice l’Apostolo Paolo: “Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo” (1Cor 4,12)2.

Eccovi una storia: [L’economo del monastero aveva maltrattato padre Matta e i suoi monaci e ne causò l’uscita dal monastero e la loro dispersione. Quando la coscienza iniziò a punzecchiarlo, e dopo che Matta El Meskin e la sua comunità ebbero trascorsi molti anni di sofferenza nel deserto di al-Rayyan, questo economo divenne vescovo. Scrisse allora una lettera a padre Matta nella quale si scusava e si diceva dispiaciuto per ciò che aveva fatto nei loro confronti, chiedendo loro perdono. Accluse anche una somma di denaro come gesto per esprimere le sue scuse. Padre Matta, riunita attorno a lui la comunità, lesse ad alta voce la lettera davanti a loro. Ci furono due opinioni: la prima, rifiutare la lettera e i soldi, a causa del male loro causato ingiustamente; la seconda, accettare le scuse e perdonarlo. Padre Matta, allora, disse loro: “Ascoltate la sentenza di Dio e del Vangelo”. Poi iniziò a dire loro, in un lungo discorso, che l’amore è superiore alla verità. Disse: “L’amore è un carisma della Chiesa. Ma non le diamo abbastanza spazio nella nostra vita, perché siamo stati spesso ingannati erigendo delle barriere tra noi e l’amore. Vi faccio l’esempio di me stesso. Quando io vedo un fratello che fa qualcosa di sbagliato, mi trovo davanti a due possibilità: o rimango in silenzio, mostrandogli così il mio amore, simile alla tenerezza divina che copre tutti gli errori e i peccati; oppure lo affronto con la verità, lo rimprovero, gli mostro il suo errore e lo correggo. Ho trascorso tutta la mia vita seguendo questo secondo metodo, parlando della verità e mettendomi alle spalle l’amore. Ma solo quest’anno, mi sono accorto di essere giunto a una situazione pericolose che è capace di farmi tornare indietro, al punto di partenza. Per questo l’amore deve prevalere”3.

Nel suo commento alla parola di Gesù nel Vangelo di Marco “Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate” (Mc 11,25), padre Matta dice: “La meraviglia del Vangelo, qui, raggiunge l’apice. Cristo, infatti, afferma che la preghiera che ottiene risposta da Dio deve sgorgare da un cuore puro. E niente rende impuro il cuore se non l’odio, l’alienazione, l’ira, il risentimento e la condanna degli altri”4.

Abba Matta comprese il perdono nel suo senso più ampio, che significa accettare l’altro, l’altro diverso da me in tutto, specialmente nella fede o nella dottrina. Prima di entrare in monastero, aveva incontrato i responsabili del movimento delle Scuole della domenica del suo tempo. La questione sollevata fu: i cattolici e i protestanti entreranno nel Regno dei Cieli? La risposta fu, ovviamente: No. Matta El Meskin si rattristò molto perché sapeva che quest’idea era diffusa tra alcune figure di spicco all’interno della Chiesa.

Passarono gli anni e un giorno padre Matta dovette andare al Cairo per un’operazione chirurgica. Il presidente della comunità evangelica in Egitto venne a rendergli visita e gli pose la stessa domanda: “I protestanti entreranno nel Regno dei Cieli?”. Padre Matta rispose così: “Né i cattolici, né i protestanti e nemmeno gli ortodossi entreranno nel Regno dei Cieli, ma soltanto la nuova creazione in Cristo Gesù. Poiché in Cristo Gesù né la circoncisione né la non circoncisione contano alcuna cosa, ma l’essere nuova creazione (Gal 6,15)”.

1 Father Matta el Maskine, The Gospel According to St Luke (in Arabic), 1st edition, 1998, p. 294.

2 Father Matta el Maskine and the grace of enlightening by the Holy Gospel (in Arabic), The Monastery of St Macarius, 2015, p. 49-50.

3 Ibid. p. 60-61.

4 Father Matta el Maskine, The Gospel According to St Mark (in Arabic), 1st edition, 1996, p. 480-481.

Kallistos Ware - La dinamica del perdono nei padri orientali

XXIII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
MISERICORDIA E PERDONO
Bose, 9-12 settembre 2015
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

di Kallistos di Diokleia

E perdona a noi i nostri debiti come anche noi li perdoniamo ai nostri debitori” (Mt 6,12). La preghiera che Gesù ci ha consegnato, benché universale, è anche estremamente concisa. Il fatto che in questa breve preghiera, per quanto di ampio respiro, circa un quarto delle parole – non meno di tredici nel testo greco, su cinquantasette o cinquantotto – siano dedicate al tema del perdono indica come nell’ottica di Dio sia essenziale che noi perdoniamo e siamo perdonatii. Afferma il metropolita ortodosso russo Anthony Bloom di Sourozh: “Perdonare ai propri nemici è la prima, la più elementare caratteristica del cristiano; se non l’abbiamo non siamo affatto cristiani”ii.

In verità Gregorio di Nissa va ancora più lontano, afferma che la clausola “Perdonaci … come noi perdoniamo” è il punto culminante nella Preghiera del Signore vista nel suo insieme, poiché costituisce “la massima vetta della virtù”iii. Aggiunge comunque che – per quanto la clausola sia estremamente importante – pur tuttavia il suo vero senso non è affatto semplice da cogliere: “Il significato sorpassa qualunque interpretazione delle parole”iv. Questa richiesta non solo è difficile da capire, ma è anche una preghiera rischiosa. Osiamo applicare a noi stessi con estremo rigore il principio posto da Cristo stesso: “Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi” (Mt 7,2). Stiamo apparentemente chiedendo che il perdono di Dio sia limitato e ristretto dal desiderio di perdono che noi stessi mostriamo verso gli altri. “Avrai in contraccambio quello che tu stesso hai fatto”v, ammonisce Cipriano di Cartagine. Come afferma Giovanni Crisostomo – e sicuramente le sue parole ci fanno rabbrividire – “Da noi dipende il giudizio su di noi”vi.

Perdona a noi … come noi perdoniamo”: Gregorio di Nissa sottolinea che questa è una cosa ben strana da dire e osserva che è come se stessimo impartendo un ordine a Dio e gli stessimo insegnando in che modo deve comportarsi.

Se io non perdono gli altri”, gli diciamo, “ allora, o Dio, tieni lontano da me il perdono”. Da nessun altra parte se non nella Preghiera del Signore impartiamo ordini in questo modo. Il paradosso, sostiene Gregorio, può essere espresso attraverso ciò che si può definire “inversione mimetica” (l’espressione è mia, non sua). In altre occasioni siamo noi a essere chiamati a imitare Dio. Nella Legge si esorta: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo” (Lv 19,2); nel discorso sul monte Cristo dice: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). In ultima istanza, è solo Dio che ha il potere di perdonare i peccati (vedi Mc 2,7). Se noi siamo capaci di perdono, questo può avvenire soltanto attraverso l’imitazione di Dio e in virtù della grazia che egli stesso ci dona. Non possiamo perdonare sinceramente, questo va detto, a meno che veniamo attirati in Dio e “in certo senso, siamo diventati Dio”, per impiegare un’espressione di Gregorio. Chi perdona deve essere “deificato” o “divinizzato”; il perdono da parte nostra non è possibile senza théosisvii.

Questa è la via normale. Ma qui, nel caso della Preghiera del Signore – e Gregorio ammette che è “cosa ardua a dirsi”viii – l’ordine abituale è invertito. In questo caso siamo noi che serviamo come modello per Dio. Invece di essere noi a imitare lui, gli stiamo chiedendo di imitare noi. Come dice Gregorio, stiamo dicendo a Dio: “Comportati così come io mi sono comportato; imita il tuo servo, Signore … Io ho perdonato; tu perdona. Io ho mostrato una grande misericordia nei confronti del mio prossimo, imita la mia amorevolezza Tu che per natura sei amorevole”ix.

E allora quando diciamo: “Perdona a noi … come noi perdoniamo”, in che modo esattamente dobbiamo intendere la particella “come”? Forse in senso causativo? In questo caso il nostro perdono deve essere visto come la causa del suo; stiamo dicendo a Dio: “Perdona a noi perché noi perdoniamo”. È in questo modo, in verità, che alcuni padri della chiesa interpretano la frase. Clemente di Alessandria giunge a dire che, perdonando gli altri, in qualche modo costringiamo Dio a perdonarcix. Ora un’interpretazione causativa di questo genere è sicuramente inaccettabile. Come ha giustamente affermato Calvino, il perdono viene dalla “libera misericordia” di Dio; è un dono immeritato della grazia divina, donato unicamente attraverso la croce e la resurrezione di Cristo e non è mai qualcosa che possiamo guadagnare o meritare. Dio agisce in sovrana libertà e noi non abbiamo niente da esigere da lui.

Come afferma Paolo citando il Pentateuco: “Dio dice a Mosè: ‘Avrò misericordia per chi vorrò averla, e farò grazia a chi vorrò fare grazia’ (Es 33,19)xi. Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che ha misericordia” (Rm 9,15-16). Questo risulta chiaramente nella parabola degli operai mandati nella vigna; a quelli che si lamentano del loro salario, il padrone risponde: “Non posso fare delle mie cose quello che voglio?” (Mt 20,15). L’iniziativa nel processo del perdono dipende da Dio e non da noi. Dio non aspetta che noi perdoniamo gli altri prima di dilatare la sua misericordia su di noi. Al contrario, il suo perdono libero e senza condizioni precede ogni movimento verso il perdono da parte nostra. “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8).

In ogni caso, tra il nostro perdono e quello di Dio non c’è una misura comune. Dio perdona in pienezza, con generosità, in un modo che va ben oltre le nostre umane capacità. Il carattere insuperabile e incomparabile del perdono divino è sottolineato in un’altra parabola di Matteo, quella dei due debitori (cf. Mt 18,23-35). Dinanzi a Dio siamo come lo schiavo che è debitore di diecimila talenti – un talento equivale a più di quindici volte il salario annuale di un operaio – mentre in rapporto agli altri siamo come lo schiavo debitore di cento denari – un denaro corrisponde alla paga giornaliera di un operaio. Gregorio di Nissa, dopo aver detto che in questo atto del perdono Dio sta imitando noi, continua poi precisando la sua affermazione dicendo che i nostri peccati davanti a Dio sono incommensurabilmente più gravi che qualsiasi peccato dell’altro contro di noi. Più tardi cita a conferma proprio la parabola dei due debitorixii.

Se dunque il nostro perdono non è la causa del perdono di Dio, se non c’è una misura comune tra il nostro perdono e il suo, in che modo dobbiamo intendere quella particella come nella richiesta “Perdona a noi … come noi perdoniamo”? Poiché se la nostra volontà di perdonare non è la causa che muove Dio a perdonarci, essa è tuttavia la condizione che rende per noi possibile ricevere il suo perdono. Il perdono è immeritato ma non è incondizionato. Dio, da parte sua, desidera sempre perdonarci. Esprimiamo questa idea con le parole di Isacco il Siro: “In lui vi è un unico amore e un’unica misericordia, che si estendono sull’insieme della creazione, senza mutamento, fuori dal tempo, in eterno”xiii.

Ricordando l’agonia di Cristo nel giardino del Getsemani e la sua morte sacrificale sulla croce, ci possiamo chiedere: Che cosa avrebbe potuto fare il Dio incarnato che non abbia fatto per guadagnarci di nuovo a sé?

Il perdono comunque non deve soltanto essere offerto, ma anche accolto. Dio bussa alla porta del cuore umano (cf. Ap 3,20), ma non abbatte la porta; siamo noi che dobbiamo aprirla. Se, nonostante il vivo e inesauribile desiderio di Dio di perdonare, noi induriamo il nostro cuore e rifiutiamo il perdono agli altri, allora molto semplicemente ci priviamo della capacità di accogliere il perdono di Dio. Chiudendo il nostro cuore agli altri, li chiudiamo anche a Dio, rigettando gli altri, rigettiamo lui, noi stessi ci escludiamo dal suo amore risanante. Dio non ci esclude, siamo noi che ci escludiamo da soli.

Perdona a noi … come noi perdoniamo” ogni volta che diciamo queste parole, come ci ha giustamente avvertito il metropolita Anthony Bloom, “prendiamo nelle nostre mani la nostra salvezza”xiv.

Sottolineando questa ricorrente insistenza dei padri sulla necessità del perdono vicendevole, ritroviamo anche la profonda convinzione, costantemente enfatizzata dai padri, che il genere umano costituisce essenzialmente un’unità. Lo possiamo dire con le parole di Silvano del Monte Athos: “Il nostro fratello è la nostra vita” xv, oppure con quelle di Giuliana di Norwich: “Agli occhi di Dio tutti gli uomini sono come un solo uomo e un solo uomo è come tutti gli uomini”xvi. Questo è vero non soltanto a livello sentimentale o emotivo, ma in termini ontologici. Il nostro bisogno di perdono vicendevole deriva direttamente dal fatto che siamo tutti interdipendenti, membri di un’unica famiglia umana.

Questa sottolineatura della nostra coinerenza interpersonale deve essere visita non solo nella clausola “Perdona a noi … come noi perdoniamo”, ma anche nella Preghiera del Signore nella sua interezza. Cipriano osserva che in tutta la preghiera si parla per lo più al plurale non al singolare; non si dice “mio”, ma “nostro”; non si dice “me”, ma “noi”.

Non diciamo: “Padre mio che sei nei cieli”; neppure: “dammi oggi il mio pane”. Ciascuno di noi non domanda che vengano rimessi solo a lui i peccati, né chiede solo per sé di non essere indotto in tentazione e liberato dal male. La nostra preghiera, invece, è pubblica e interessa tutti. Quando preghiamo, non preghiamo per una sola persona, ma per tutto il popolo, perché tutto il popolo è unoxvii.

La percezione dell’unità della nostra umana natura, nell’ottica di Ciprianoxviii, ha il suo saldo fondamento nella dottrina cristiana di Dio. Noi crediamo in Dio Trinità che non soltanto è uno-in-tre, non soltanto è un’unità, ma è un’unione, non solo personale, ma interpersonale. Crediamo in Dio come comunione di Padre, Figlio e Spirito. Questo significa che in quanto esseri umani creati a immagine del Dio triuno, siamo salvati non come singoli individui, ma come membri di quella famiglia che è la chiesa, e così non possiamo essere perdonati da Dio se non ci perdoniamo a vicenda.

Quando, perciò, diciamo nella Preghiera del Signore. “Perdona a noi … come noi perdoniamo”, stiamo proprio affermando la nostra unità in quanto membri della razza umana; possiamo dire, con Clemente di Alessandria che “tutti gli uomini sono creazione di una volontà sola”xix. Massimo il Confessore sviluppa questa affermazione nel suo commento alla Preghiera del Signore. L’unità e l’amore vicendevole, dice costituiscono “il principio (lógos) dell’[umana] natura”.Quando perciò preghiamo per ricevere il perdono, stiamo mettendo la nostra volontà umana in armonia con il lógos secondo il quale siamo stati creati. E inversamente, rifiutare il perdono è “tagliare la natura separando se stessi dagli altri esseri umani attraverso i quali noi stessi siamo umani”. Il nostro rifiuto di vivere in comunione gli uni con gli altri attraverso il perdono reciproco è perciò autodistruttivo: “Se la natura, con la volontà, si ribella contro se stessa, è impossibile che essa accolga la divina, ineffabile condiscendenza”xx.

Gregorio di Nissa perviene alla medesima conclusione: “Condannando il tuo prossimo, condanni te stesso”xxi.

Alcuni padri greci sviluppano questa visione dell’unità della natura umana in modi che possono sembrare a prima vista sorprendenti e inaspettati. Un autore ascetico vissuto probabilmente all’inizio del v secolo, Marco il Monaco o l’Eremita, per esempio, sostiene che dobbiamo pentirci non solo per i nostri peccati personali ma anche per i peccati degli altri:

Dal momento che il diavolo non desiste dal muoverci guerra, anche il pentimento non deve mai cessare. I santi sono dunque tenuti a offrirlo anche per il prossimo poiché non possono giungere alla perfezione senza un’attiva carità … Se dunque sarà fatta misericordia a chi fa misericordia, a mio avviso è a causa del pentimento che l’universo rimane unito poiché ciascuno di noi è aiutato dall’altroxxii.

Parte del pentimento, anche se questo non è tutto, consiste proprio nel cercare il perdono di Dio. Se siamo chiamati a pentirci per i peccati degli altri, allora possiamo e dobbiamo chiedere il perdono a nome loro. “Ciascuno di noi è aiutato dall’altro”; siamo perdonati non da soli, ma come “membra gli uni degli altri” (Ef 4,25). Il perdono è personale, ma non individuale.

Quando si dice che siamo perdonati non come singoli individui, ma “come membra gli uni degli altri”, non dobbiamo pensare che questo si riferisca semplicemente all’altro essere umano che vive accanto a noi in questo momento. La solidarietà nel perdono vicendevole si estende attraverso il tempo e lo spazio. La dinamica del perdono è diacronica. Gregorio di Nissa sostiene che quando diciamo “Perdonaci” nella Preghiera del Signore, chiediamo il perdono non solo per i nostri peccati personali, ma anche per “i debiti comuni alla nostra natura”, vale a dire per il peccato originale che l’intera razza umana eredita dal nostro progenitore Adamo. Anche se fossimo liberi da peccati personali, anche se in realtà, commenta Gregorio, nessuno di noi può dire questo neppure per una sola ora della sua vita, avremmo comunque bisogno di dire “Perdonaci” a nome di Adamo.

Adamo vive in noi … e così possiamo utilizzare queste parole: Perdona a noi i nostri debiti. Anche se fossimo Mosè o Samuele o qualcun altro di estremamente virtuoso, nemmeno in quel caso potremmo considerare queste parole come applicate a noi, poiché noi siamo umani; noi partecipiamo della natura di Adamo e perciò partecipiamo anche della sua caduta. Poiché dunque, come dice l’Apostolo, “tutti moriamo in Adamo” (1 Cor 15,22), queste parole, che ben esprimono il pentimento di Adamo, sono anche appropriate per tutti coloro che sono morti con lui.

Tali asserzioni da parte di Marco il Monaco e di Gregorio di Nissa hanno poco a che vedere con una teologia della colpa originale pienamente sviluppata come quella che troviamo in sant’Agostino. In effetti, Marco esclude espressamente la prospettiva secondo cui, in un senso giuridico, noi saremmo colpevoli del peccato di Adamo, considerato come il risultato di una scelta personale. Tuttavia, a un livello più profondo di quello di una colpevolezza legale, c’è una mistica solidarietà che ci unisce tutti gli uni agli altri; ed è di questo che Marco e Gregorio stanno parlando. “Tutti gli uomini sono un uomo”, e così ciascuno di noi è “responsabile per tutto e per tutti”, per usare le parole dello starec Zosima nel capolavoro di Dostoevskij.

Anche se non siamo personalmente colpevoli, portiamo comunque il peso della colpa di Adamo e degli altri membri della famiglia umana. Essi vivono in noi e noi in loro. Qui, come sempre la parola fondamentale è “noi”, e non “io”. Nessuno di noi pecca da solo, perché ci trasciniamo a vicenda nella caduta e nessuno di noi è perdonato e salvato da solo perché attraverso la misericordia di Dio ci innalziamo a vicenda nel paradiso. La dinamica del perdono non è solitaria ma “sociale”; non si dice: “Perdona come io perdono”, ma: “Perdonaci come noi perdoniamo”.

A conclusione riflettiamo sulle parole di Cristo sulla croce: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). È stato questo spirito di un perdono che tutto abbraccia a cambiare la crocifissione di Cristo da errore giudiziario, atto di violenza arbitraria in sacrificio espiatorio per i peccati del mondo intero. E noi, che ci chiamiamo cristiani e che portiamo al collo il segno della croce, siamo chiamati a fare nostro lo stesso spirito di perdono con un respiro universale. Poiché senza perdono non c’è vero cristianesimo.

i*Metropolita di Diokleia, del Patriarcato di Costantinopoli, ha insegnato presso l’università di Oxford. Traduzione dall’originale inglese di Lisa Cremaschi. Per una più ampia discussione sul tema del perdono, si veda il mio articolo: “‘Forgive us …as we forgive’: Forgiveness in the Psalms and the Lord’s Prayer”, in Meditations on the Heart: The Psalms in Early Christian Thought and Practice. Essays in Honour of Andrew Louth, a cura di A. Andreopoulos, A. Casiday, C. Harrison, Turnhout 2011, pp. 53-76.

 

ii A. Bloom, Per una preghiera viva, Brescia 20092, p. 43.

iii Gregorio di Nissa, Sul Padre nostro, omelia 5, in Gregorii Nysseni Opera VII/2, Leiden-New York-Köln 1992, p. 59

iv Ibid., p. 61.

v Cipriano di Cartagine, La preghiera del Signore 23, in Opere di San Cipriano, a cura di G. Toso, Torino 1980, p. 227.

viGiovanni Crisostomo, Omelie sul vangelo di Matteo I, a cura di S. Zincone, Roma 2003, p. 371.

vii Cf. Gregorio di Nissa, Sul Padre nostro, omelia 5, pp. 59-61.

viii Ibid., p. 61.

ixIbid., pp. 61-62.

x Cf. Clemente di Alessandria, Gli stromati VII,86,6, a cura di M. Rizzi e G. Pini, Milano 2006, p. 801.

xi Cf. Gregorio di Nissa, Sul Padre nostro, omelia 5, p. 62.

xii Ibid., pp. 69-70.

xiii Isacco il Siro, Discorsi, parte II, Omelia 40,1, in CSCO 555, Scriptores Syri 225, Louvain 1995, p. 174.

xiv A. Bloom, Per una preghiera viva, p. 42.

xv Silvano del Monte Athos, Nostalgia di Dio. Tutti gli scritti, a cura di A. Mainardi, Magnano 2011, p. 137.

xviGiuliana di Norwich, Libro delle rivelazioni, a cura di D. Pezzini, Milano 1984, p. 211. Il passo è citato in Charles Williams, The Forgiveness of Sins, London 1942, p. 16. Questo libretto, scritto nel corso della seconda guerra mondiale, resta uno dei più utili trattati su questo tema.

xvii Cipriano di Cartagine, La preghiera del Signore 8, pp. 213-214.

xviii Cf. ibid. 23, p. 227: “Dio non accetta il sacrificio di chi vive nella discordia ... Il più grande sacrificio per Dio è la nostra pace, la nostra concordia di fratelli e l’essere un popolo raccolto nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo”.

xix Clemente di Alessandria, Stromati VII,81,3, p. 796.

xx Massimo il Confessore, Sul Padre nostro, in Nicodimo Aghiorita e Macario di Corinto, La filocalia II, a cura di M. B. Artioli e M. F. Lovato, Torino 1983, p. 308.

xxi Gregorio di Nissa, Sul Padre nostro, omelia 5, p. 61.

xxii Marco il Monaco, La penitenza 12, in Traités I, a cura di G.-M. de Durand, Paris 1999, p. 250.