Conclusioni del Convegno

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

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CONCLUSIONI DEL CONVEGNO

Pronunciate da Michel Van Parys a nome del Comitato Scientifico

Quando la comunità monastica di Bose, un anno fa, al vedere le atrocità commesse durante la guerra civile in Siria, ha scelto come tema del XXII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa il versetto di Mt 5,9: “Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio”, non poteva certo ancora prevedere la drammatica urgenza delle settimane scorse e dei giorni scorsi nel Vicino e Medio Oriente e in Ucraina.

Proviamo un disagio estremo, cent’anni dopo il genocidio armeno seguito da tanti altri nel corso del XX secolo, a parlare di pace, a constatare l’impotenza che ci afferra di fronte alle sofferenze di tanti bambini, genitori, nonni

Come parlare? Ma come possiamo non parlare, non riflettere e non pregare? È ciò che abbiamo fatto insieme mettendoci sotto lo sguardo di Cristo Gesù, nostra pace.
Proverò, come conclusione, a rilevare qualche linea di forza dei nostri scambi, e di suggerire qualche punto che meriterebbe ulteriori approfondimenti.
Diverse relazioni hanno abbozzato una riflessione teologica e antropologica sulla violenza subita e inflitta nella Sacra Scrittura, e più precisamente nei Salmi e nel Vangelo secondo Giovanni (cf. E. Bianchi, La violenza e Dio, Milano 2013)

Non ignoriamo che il cristianesimo, a partire dall’illuminismo, così come il giudaismo e l’islam, sono accusati d’intolleranza. Non possiamo eludere tale questione. Si è citata l’interpretazione allegorica praticata dai padri della Chiesa; essa, se non altro, mostra che la chiesa primitiva era pienamente consapevole del problema, e ha sviluppato un’esegesi che trasponeva la violenza fisica al livello del combattimento spirituale del cristiano contro il principe di questo mondo, il diavolo, padre della menzogna e omicida (cf. Gv 8,44).

Ma forse oggi potremmo proporre al popolo di Dio anche un’altra tradizione patristica complementare, quella tipologica, che, ad esempio, inserisce i salmi nella storia della salvezza, leggendoli alla luce di un tipologia messianica. Non potremmo cercare insieme, noi chiese ancora divise, un’interpretazione “cristica” dei salmi, della violenza che attraversa la Bibbia, dal martirio di Abele ad opera di suo fratello Caino alla guerra totale, escatologica, di cui ci parla il libro dell’Apocalisse (cf. Ap 12; 19,11-21; 20)

Giovanni il Teologo attesta che Gesù, il Cristo, ha vinto il male e la morte con l’agape, l’amore, (eis télos egápesen hautoús), “li amò fino alla fine”, o “fino all’estremo” (Gv 13,1).
Ad esempio: il salmo 4, al versetto 5, si può tradurre dall’ebraico: “Lottate per non peccare, ma custodite il silenzio”. La LXX traduce: “Adiratevi, ma non peccate” (Irascimini et nolite peccare, nella versione latina). L’ira è un impulso necessario per l’aggressività, ma il Signore Gesù ci dà, a più riprese, l’esempio di un’indignazione, di un’ira, che non ha altro fine se non quello di neutralizzare l’ipocrisia o l’indurimento del cuore, personale o comunitario.

Lo possiamo dire en passant: le antiche traduzioni greche e latine della Bibbia hanno già dato avvio a una rilettura del testo ebraico, un’interpretazione infinita che è compito di ogni generazione cristiana, interpretazione che sappia trarre profitto da tutto ciò che le scienze umane possono apportare alla comprensione della Parola di Dio.

I racconti biblici e i salmi riflettono la pedagogia dello Spirito santo, parlano della pazienza di Dio che ci conduce per mano da là dove noi siamo per farci entrare passo a passo nella salvezza che egli ci offre gratuitamente nel e attraverso il Verbo incarnato. Ci parlano anche, se non ancora di più, del nostro indurimento (cf. Sal 94 [95],9), della nostra resistenza a questa offerta della salvezza personale e comunitaria. Le parole “violente” ci ridicono incessantemente il cammino che dobbiamo percorrere: dal rifiuto del fratello al perdono del nemico. Dare un nome alle nostre passioni, ai nostri sentimenti di odio, ai nostri desideri è già una terapia. Dare un nome significa esorcizzarli, discernerli, guarirli. È bene dare un nome agli abissi del cuore umano peccatore. La Bibbia ci aiuta a prenderne coscienza.

I padri della chiesa hanno esplorato la ricchezza della pace, dono di Dio, in Cristo e attraverso il Cristo risorto. Cristo Gesù ci lascia la pace, ci dona la pace, la da non come la da il mondo (cf. Gv 14,27).

La pace ha la sua fonte in Dio, Padre, Figlio e Spirito santo. Per noi essa ha il volto del Figlio incarnato, servo sofferente, mite e umile di cuore, che ritornerà come giudice dei vivi e dei morti. La pace che ci è donata con Dio, riconciliazione tra gli angeli e gli uomini, deve regnare nella chiesa di Dio, tra le chiese e nel cuore dei credenti.

I padri si sono concentrati soprattutto sulla pace interiore, quella del cuore. Quale è la sinergia del battezzato con la grazia? Come si realizza il lungo lavoro della conversione, della metánoia? Con grande realismo hanno riconosciuto che le virtù dell’anima, sempre con l’aiuto dello Spirito santo, indirizzano lungo la via dell’amore, preparano la deificazione. Hanno fatto ricorso, con discernimento, agli strumenti che le tradizioni filosofiche non-bibliche mettevano a loro disposizione per insegnare il cammino dell’amore, che irradia la pace, e per fornire “le armi” contro tutto ciò che ostacola la crescita dell’agape: l’orgoglio, l’invidia, la gelosia, l’angoscia, la collera, l’avarizia, i cattivi desideri… (cf. Mt 15,19; Mc 7,20-23).

La pace, dono del Cristo e frutto dello Spirito santo (cf. Gal 5,22), deve manifestarsi nell’unità e attraverso l’unità della chiesa e delle chiese. Abbiamo ascoltato quanto hanno scritto Clemente di Roma e Ireneo di Lione. Consideriamo come rivolto a noi oggi il problema posto dalla concisa affermazione del vescovo di Lione a papa Vittore di Roma: “Il disaccordo (diaphonía) sul digiuno conferma l’accordo (homónoia) della fede” (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica V,24,12-13).

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Al pari della santa Scrittura, la dottrina dei padri della chiesa deve essere accolta da ogni nuova generazione di credenti. Potremmo forse ampliare l’affermazione di Ireneo di Lione riproponendola in questi termini: “Il disaccordo sulle osservanze e la diversità delle formulazioni teologiche confermano la nostra unanimità nella fede?”. Sappiamo che nel sinodo del 362, ad Alessandria, Atanasio stesso ne ha dato conferma: la diversità delle formulazioni teologiche è legittima se la confessione di fede è unanimemente concorde.

Diverse volte si è citato, quasi incidentalmente, Basilio il Grande. I dissensi nella chiesa di Cristo sono stati per lui oggetto di grande sofferenza. Più di altri padri ha lavorato per la pace e l’unità della chiesa, vi ha riflettuto instancabilmente. Ritrovare la pace e l’unità della chiesa per la quale il Signore Cristo ha versato il suo sangue sulla croce, non lo si può fare che a una sola e unica condizione: l’obbedienza integrale delle chiese e dei credenti alla parola di Dio. Quando Basilio parla del raffreddamento dell’amore (cf. Mt 24,12), parla della disobbedienza alla parola di Dio. Ascoltiamo un passo tratto da una lettera alla chiesa di Tarso:

C’è bisogno di dire a dei figli della pace che cos’è il bene della pace? Poiché, dunque, questa cosa grande, mirabile e degna di essere ardentemente cercata da tutti quelli che amano il Signore, corre ormai il rischio di essere ridotta a un puro nome, poiché l’iniquità si è moltiplicata a motivo del raffreddamento dell’amore presso i più (cf. Mt 24,12), ritengo sia bene che quelli che servono il Signore in tutta sincerità e verità abbiano come unico scopo delle loro fatiche quello di ricondurre all’unità le chiese divise tra loro in tante frazioni e in tanti modi… Niente è proprio del cristiano quanto lavorare per la pace; perciò il Signore ci ha promesso per questo una grandissima ricompensa (cf. Mt 5,9) (Basilio il Grande, Lettere 114).

Qual è il legame tra l’unità della chiesa e la pace nel nostro mondo? Ci è parso che questo legame esista e che sia molto stretto. “Il vincolo della pace” (syndesmós tês eirénes) può e deve placare i conflitti e le guerre di cui l’umanità è vittima… Le chiese hanno un’enorme responsabilità nella promozione della pace in questo mondo.

La Divina liturgia racchiude un’immensa ricchezza a questo proposito. Essa ridice instancabilmente il dono della pace che le dona il Cristo risorto. Subito dopo la benedizione del regno di Dio, Padre, Figlio e Spirito santo, l’assemblea eucaristica è invitata a “pregare il Signore nella pace” (en eiréne toû Kyríou deethômen), a invocare la pace con il fratello, anche con quello che ha qualcosa contro di noi, pace tra le chiese di Dio, pace per il mondo intero. Vi è qui una possibilità di catechesi a partire dalla pace annunciata nella Divina liturgia che dovrebbe ispirare la predicazione dei pastori.

Non sarebbe anche il caso di togliere, o di non utilizzare più, gli anatemi presenti nei libri liturgici contro le altre chiese? Pensiamo agli anatemi contro papa Leone o contro Severo di Antiochia. Forse avevano una certa utilità pastorale in una determinata epoca, ma oggi non finiscono per rinchiuderci in un’identità ecclesiale esclusiva?

Le nostre chiese hanno tutte accettato, quando ne avevano la possibilità, la “coercizione”, il ricorso alla violenza, con o senza l’appoggio del “braccio secolare” per reprimere l’eresia, a motivo della sua diversa formulazione dogmatica. La politica ha abusivamente utilizzato la chiesa, le chiese, così come le chiese hanno abusato della loro influenza sulla società. Quale sinfonia tra trono e altare, nel rispetto di ciò che spetta a Dio e di ciò che spetta a Cesare?

Permettetemi di raccontare a questo proposito un’esperienza personale. Ormai molti anni fa, avevo studiato gli atti e la storia dei concili di Efeso (431) e di Calcedonia (451). Avevo appreso che il patriarca Flaviano di Costantinopoli era morto in seguito ai maltrattamenti inflittigli dai monaci copti nel sinodo di Efeso del 449 (il famoso latrocinio della storiografia calcedonese). Quando visitai per la prima volta il monastero di San Macario a Scete, fui invitato a venerare le reliquie del vescovo Macario, morto in seguito ai colpi e alle ferite inflitte dai monaci calcedonesi. Per me fu uno choc salutare! Non posso far altro che sperare che i due racconti siano frutto di leggende, ma questi due racconti la dicono lunga sulla costruzione e sul mantenimento nel corso del tempo nella memoria della chiesa dei torti subiti da parte dell’altra chiesa, dimenticando il torto inflitto dalla propria chiesa.

Il problema che ci viene posto, e che resta attuale, è quello della responsabilità delle nostre chiese e, in particolare, dei loro pastori e teologi, di de-costruire, attraverso una catechesi irenica, le immagini fittizie o reali dell’altra chiesa. Come de-costruire queste immagini falsate? Certamente attraverso l’ascolto del racconto delle sofferenze comunitarie e personali dell’altro; poi, attraverso l’umile e paziente lavoro dell’investigazione storica; infine, con la metánoia, la conversione, assumendo il passato della “coercizione” morale o fisica attuata dalla mia chiesa o dalla mia nazione. Riconoscere questo passato come proprio, purifica la nostra memoria e ci conduce a chiedere perdono. Non si tratterebbe di una delle forme dell’amore per i nemici che tanto aveva a cuore Silvano del Monte Athos?

Un primo passo in questa direzione sarebbe quello di rinunciare a riattivare la memoria delle ferite del passato. Non si tratta di negarle, perché le ferite cicatrizzate del corpo risorto di Gesù restano. Ci è sembrato che le chiese siano chiamate a discernere “gli spiriti che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12), a non lasciarsi sedurre dalla propaganda ideologica e manipolatrice dell’opinione pubblica, a trascendere le passioni nazionalistiche o identitarie.

Le nostre chiese sono chiamate a diventare dei laboratori della pace di Dio (ergastéria tês eirénes toû Theoû), a cercare con impazienza di purificarsi per ricevere dal loro Signore il dono dell’unità. È questa la condizione assolutamente necessaria per la credibilità della loro testimonianza dell’amore di Dio e della pace che egli dona loro, “perché siano una cosa sola, come noi” (Gv 17,11).

Abbiamo parlato anche dei testimoni della pace.

I santi, canonizzati o meno, confortano la nostra speranza: anche noi possiamo diventare “artefici di pace” (Mt 5,9). Sono state evocate davanti ai nostri occhi sette figure di “pacificatori”: Francesco di Assisi, Nerses di Lambron, Silvano del Monte Athos, padre Stefan Zankov, padre André Scrima. A questi occorre aggiungere Nikolaj Nepluev, la cui fraternità ha fatto “abbracciare la giustizia [sociale] e la pace” (cf. Sal 84 [85],11), e, infine, il patriarca Athenagoras, al quale dobbiamo tutti un’immensa gratitudine. È stato artefice di pace con Paolo VI abolendo gli anatemi tra la chiesa di Roma e la chiesa di Costantinopoli. Il 7 dicembre del 2015 celebreremo il cinquantesimo di questo evento. Ho un sogno… Perché il prossimo anno non canonizzare nello stesso giorno Paolo VI a Roma e il patriarca Athenagoras al Phanar? Sarebbe un segno che la loro santa amicizia continua a portare il frutto dello Spirito, la pace, nelle nostre chiese. La speranza non delude!

Termino con una storia dei padri del deserto, che ci parla di umili artigiani di pace, che a loro rischio e pericolo continuano ad agire e a sperare. Questa storia ci fa pensare. La riporto come conclusione:
Vi era un anacoreta, un uomo di grande discernimento, che desiderava abitare alle Celle e non trovava una cella pronta. Un altro anziano, che aveva una cella vuota, venuto a conoscenza del desiderio dell’anacoreta, lo supplicò di venire a stabilirsi in quella cella, finché non ne avesse trovata un’altra. L’anacoreta allora vi andò e vi si stabilì. Alcuni anziani del luogo cominciarono a fargli visita, come a un ospite, e ciascuno gli portava quel che poteva. Egli li accoglieva e li ospitava. Ma l’anziano che gli aveva dato la cella, cominciò a provare invidia e a dir male di lui. Diceva: “Io sono rimasto qui per tanti anni, praticando una severa ascesi, e nessuno veniva da me; questo impostore invece è qui da pochi giorni ed ecco che tutti vengono da lui!”. E disse al suo discepolo: “Va’ a dirgli: ‘Va’ via di qui, perché ho bisogno della cella’”. Ma il discepolo andò dall’anziano e gli disse: “Il mio abba chiede come stai”. Quello rispose: “Digli che preghi per me, perché ho mal di stomaco”. Ritornato da chi l’aveva inviato, il fratello disse: “L’anziano ha detto: ‘Ho visto un’altra cella e me ne vado’”. Due giorni dopo, l’anziano disse di nuovo al discepolo: “Va’ e digli che, se non se ne parte, vengo io a scacciarlo con un bastone”. Il fratello ritornò dall’anacoreta e gli disse: “Il mio abba ha saputo che sei malato; ne è molto dispiaciuto e mi ha mandato a farti visita”. Quello gli rispose: “Digli che, grazie alle sue preghiere, sto bene”. Il discepolo ritornò dal suo anziano e gli disse: “Ha detto: ‘Aspetta fino a domani e, se Dio vuole, me ne andrò’”. Giunse la domenica e l’anacoreta non uscì dalla cella. L’anziano allora prese un bastone e partì con l’intenzione di percuoterlo e cacciarlo via. Mentre stava per partire, il discepolo gli disse: “Ti precedo nel caso che si trovino là dei fratelli e ne restino scandalizzati”. L’anziano glielo permise. Il fratello allora corse avanti e disse all’anacoreta: “Il mio abba viene a trovarti e ad accoglierti nella sua cella”. Quello, vedendo l’amore dell’anziano, uscì incontro a lui e gli fece una metanìa da lontano dicendo: “Vengo verso la tua santità, padre. Non ti affaticare”. Dio allora, vedendo l’opera del giovane, mosse a compunzione l’abba che, gettato via il bastone, corse ad abbracciare l’anacoreta. Lo abbracciò e lo condusse nella sua cella, come se quello non avesse udito nulla di quanto egli gli aveva mandato a dire; quindi disse al suo discepolo: “Non gli hai riferito niente di quello che ti avevo detto?”. Quello rispose: “No”. E l’anziano, a queste parole, fu pieno di gioia e capì che l’invidia proveniva dal Nemico e così lasciò in pace l’anziano. Poi cadde ai piedi del suo discepolo e gli disse: “Tu sei mio padre e io tuo discepolo, perché grazie a quello che hai fatto, le nostre due anime sono salve”. (Detti dei padri, N 451, in Detti editi e inediti, a cura di L. Cremaschi e S. Chialà, Qiqajon, Bose 2002, pp. 190-192).

Sintesi dei lavori di mercoledì 3 settembre 2014

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
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SINTESI DEI LAVORI DI MERCOLEDÌ 3 SETTEMBRE 2014

La prima giornata del convegno si è aperta e si è svolta in un clima di pace e di fraternità tra i partecipanti. Il priore di Bose e presidente del comitato scientifico del convegno, fr. Enzo Bianchi, ha salutato l’inizio dei lavori sottolineando la (purtroppo) scottante attualità del tema, a causa delle numerose guerre che in questo momento sono in corso in vari luoghi del pianeta, e ha ricordato a tale proposito le recenti parole del Santo Padre Francesco, secondo il quale siamo oggi di fronte alla “terza guerra mondiale, anche se combattuta a capitoli” e non tutta insieme. Prima dell’inizio dei lavori, è stata data lettura dei principali messaggi dei capi delle chiese rappresentate in sala, che hanno voluto rivolgere il loro saluto ai partecipanti ed esprimere la loro piena consonanza sul bisogno di una riflessione seria riguardo al tema della pace: il Metropolita Athenagoras del Belgio ha letto il messaggio di S. S. il Patriarca Ecumenico Bartholomeos; il vescovo Kliment, a capo della delegazione del Patriarcato di Mosca, ha letto il messaggio del Metropolita Ilarion di Volokolamsk a nome di S. S. il patriarca di Mosca Kirill; infine lo stesso priore Enzo ha dato lettura del telegramma del Card. Pietro Parolin, segretario di Stato di Sua Santità, che ha trasmesso la benedizione del Santo Padre Francesco. Di seguito, la relazione iniziale di Aristotle Papanikolaou, dell’università di Fordham, è servita a impostare il tema nelle sue linee generali: attraverso una sapiente lettura, che cercava di combinare le fonti tradizionali della teologia ortodossa (Bibbia e Padri) con i dati delle scienze umane, il relatore, ha proposto un’antropologia cristiana della pace, indicando l’amore (declinato come perdono) come la via cristiana della pace, che pur non cancellando o superando la violenza, permette tuttavia di convivere con essa, di viverla dall’interno in un’altra dimensione (il Cristo risorto, ha ricordato, conserva le ferite ricevute sulla croce, nonostante esse siano ormai assunte nella sua condizione di risorto). In modo simile il secondo relatore, il biblista russo Michail Seleznev, nel cercare di giustificare la scandalosa presenza della violenza nel Salterio, il libro per eccellenza della preghiera ebraico-cristiana, ha proposto di vedere in questi testi un mezzo per confessare e manifestare onestamente di fronte a Dio (senza nasconderla) la violenza che abita l’uomo, come necessaria premessa della sua trasfigurazione in una prospettiva più propriamente cristiana.

Aristotle Papanikolaou, Per un'antropologia cristiana della pace (TESTO INTEGRALE)

 

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Le conferenze del pomeriggio hanno completato la presentazione generale del tema, affrontandolo dal punto di vista della teologia neotestamentaria, in particolare del vangelo di Giovanni (Christos Karakolis), della teologia liturgica (Metropolita Andrej di Austria, Svizzera e Malta) e della teologia patristica (Porphyrios Giorgi). Il pomeriggio si è concluso con una vivace discussione, con numerosi interventi da parte del pubblico presente in sala, in cui sono state poste alcune delle questioni più spinose con cui si confrontano oggi le chiese cristiane, in particolare ortodosse (“la pace evangelica è pura utopia?”, “in che misura si può ammettere una violenza legittima?”, “la chiesa può benedire le armi?”, “cosa fare di fronte all’oppressore dell’innocente?”). In linea generale, comunque, la condanna della violenza e la sua impossibile conciliazione con la prospettiva cristiana ed evangelica è stata unanime da parte dei relatori. Le chiese, è stato affermato, se sono fedeli alla loro missione, possono solo essere ponti di unione e di pace, mai elemento che favorisce la guerra e la divisione.

Sintesi dei lavori di giovedì 4 settembre 2014

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
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La seconda giornata del convegno è stata dedicata ad approfondire il tema della pace nella tradizione spirituale delle chiese cristiane, già impostato nelle sue linee generali durante il primo giorno. Le tre conferenze del mattino, in particolare, sono state dedicate a tre case studies, che in contesti diversi mostrano declinazioni e aspetti particolari della pace evangelica: san Clemente di Roma, l’autore della celebre Prima lettera ai Corinti (ma anche il Clemente “costruito” dalla tradizione agiografica posteriore soprattutto slava) è il santo vescovo che ristabilisce la pace all’interno del corpo ecclesiale minacciato dalla divisione (Daria Morozova); sant’Ireneo di Lione, il grande padre della chiesa e teologo del II secolo, è il portatore di pace nei conflitti tra le comunità, che promuove uno stile di riconciliazione inter-ecclesiale capace di considerare le differenze nella pratica come una testimonianza dell’unità nella fede (John Behr); i padri della tradizione ascetico-monastica del deserto, infine, nella loro vita come nei loro scritti, pur non ignorando gli altri aspetti, danno una preminenza all’aspetto interiore della pace, la “pace di Dio in noi” che vince le passioni che abitano l’uomo (Symeon Paschalidis).

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La prima conferenza del pomeriggio (Cyril Hovorun) ha affrontato il tema cruciale (con ricadute ancora molto attuali) dell’uso della violenza e della coercizione nel quadro delle relazioni tra chiesa e stato, mostrando come la chiesa nella tarda antichità, a partire dalla “pace costantiniana”, abbia troppo facilmente rinnegato le proprie radici evangeliche per lasciarsi influenzare dai metodi coercitivi propri dell’istituzione imperiale romana: solo la modernità e l’avvento del pluralismo l’hanno aiutata a superare progressivamente questa grave e indebita alterazione del messaggio evangelico per riscoprire la propria autentica natura non-violenta. Le ultime tre conferenze del pomeriggio sono state dedicate a tre grandi figure di “testimoni della pace” che, per appartenendo a tre diverse tradizioni ecclesiali ufficialmente non in comunione tra di loro (quella cattolica-latina, quella armena, e quella bizantino-slava), hanno manifestato la loro intima sintonia, vivendo e testimoniando in modo simile l’autentica pace evangelica: san Francesco di Assisi (Panaghiotis A. Yfantis), san Narses di Lambron (Adam Makaryan) e san Silvano dell’Athos (Sr. Magdalen di Maldon). Quest’ultimo, in particolare, è uno dei grandi santi del XX secolo, che nei suoi scritti ha mostrato lo stretto e intimo legame tra la pace intesa in senso evangelico e l’amore dei nemici, il punto più alto della scala dell’amore, perché – affermava – “chi non ama i suoi nemici non troverà mai pace, neppure se fosse posto in paradiso”; ma noi possiamo amare i nemici solo in virtù di una grazia dello Spirito santo.

LEGGI: Panaghiotis A. Yfantis, Francesco di Assisi, un testimone della pace (testo completo)

LEGGI: Sr. Magdalen di Maldon, La pace interiore e l’amore per il nemico: san Silvano dell’Athos (testo completo)

I lavori del convegno, come il giorno precedente, sono stati scanditi dalla preghiera liturgica della Comunità, che oggi ha celebrato la memoria di san Mosè profeta, che la tradizione biblica e patristica ricordano come “l’amico di Dio” e “il più mite tra tutti gli uomini”.

Dopo il pranzo un gruppo di ortodossi partecipanti al convegno, su invito del vescovo + Filaret di Leopoli e Galizia, si è radunato nella chiesa della comunità per celebrare una supplica (litia) in memoria del centenario della deportazione, da parte delle autorità austro-ungariche, degli ucraini rumeni nel campo di concentramento di Talerhof (Austria).

Nel pomeriggio, l'Archimandrita Athenagoras Fasiolo, della Metropoli ortodossa d'Italia, nel rivolgere ai partecipanti il saluto e il ringraziamento del Metropolita Ghennadios d'Italia, ha reso nota l'iniziativa intrapresa dalla comunità monastica di Montaner (Treviso) per la ricostruzione della chiesa del suo monastero recentemente distrutta a causa di un incendio

Sintesi dei lavori di venerdì 5 settembre 2014

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
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SINTESI DEI LAVORI DI VENERDÌ 5 SETTEMBRE 2014

Nella terza mattinata del convegno è proseguita la presentazione dei “testimoni della pace”, focalizzandosi su quattro grandi figure della recente storia della chiesa, che hanno aperto cammini di pace e di riconciliazione contribuendo ad abbattere i muri della divisione e del sospetto: 1) Nikolaj Nepluev (Natalija Ignatovich), fondatore in Russia della “Fraternità ortodossa di lavoro dell’Esaltazione della croce”, che cercava di promuovere l’ideale della pace tra gli uomini attraverso una vita evangelica basata sulla fede, sull’amore e sul lavoro; 2) il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Athenagoras (Athenagoras del Belgio), uomo evangelico di pace e promotore del “dialogo della carità” tra le chiese, che riteneva che “senza ritorno alla religione dell’amore e del perdono, la pace non potrà regnare”; 3) il teologo bulgaro Stefan Zankov (Viktor Mutafov), uno dei pionieri del movimento ecumenico, che lavorò ugualmente per aprire la strada al dialogo tra i cristiani delle diverse confessioni; 4) André Scrima (Anca Manolescu), teologo rumeno, archimandrita del Patriarcato ecumenico, promotore di un dialogo profondo tra le religioni, che faccia spazio a quel “silenzio” trascendente di Dio che precede ogni parola umana, e a quella “pace” presente al cuore delle stesse religioni che assicura la possibilità stessa del dialogo, e ciò allo scopo di giungere ad approfondire insieme il mistero di Dio, tendendo parallelamente verso la sua infinità di vita e di senso. Nelle discussioni in sala si è accennato ai frutti viventi e concreti che l’opera di questi autentici “pacificatori” hanno lasciato in eredità alle rispettive chiese, plasmando un’ortodossia serenamente aperta all’incontro e al dialogo con gli “altri”. La via aperta da questi pionieri – si è sottolineato – è senza ritorno e, nonostante le resistenze da parte di gruppi minoritari (ma spesso molto capaci di far sentire la propria voce, facendola passare per “la voce dell’ortodossia”), è largamente accolta dall’insieme del popolo di Dio presente nelle varie chiese ortodosse.

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Al pomeriggio si è svolta una tavola rotonda sul tema del convegno, presiedeuta da Jim Forest e con la partecipazione di Amal Dibo (Beirut, Libano), Pantelis Kalaitzidis (Volos, Grecia), Aleksander Ogorodnikov (Mosca, Russia), Konstantin Sigov (Kiev, Ucraina). Alla discussione ha preso parte attiva anche il pubblico presente. Molte le questioni affrontate, alcune delle quali, come era prevedibile, direttamente legate alla recente attualità delle guerre in Ucraina e in Medio Oriente. Da parte di molti è stata affermata la necessità che le chiese ortodosse si liberino dal nazionalismo e dai legami con gli stati nazionali in cui si trovano a vivere: la fede cristiana – è stato affermato – non ammette la sacralizzazione di nessuna terra, poiché “tutta la terra appartiene a Dio”, e ovunque i cristiani si trovino a vivere, devono avere sempre la coscienza di essere anche e soprattutto cittadini di un’altra terra, quella celeste ed escatologica, e che nessuna terra quaggiù può appartenere loro in modo stabile. Si è affermata quindi l’urgente necessità per la Chiesa – per ogni chiesa – nel contesto degli attuali conflitti, di non difendere soltanto i “suoi”, ma tutte le vittime senza distinzioni, di tutte le guerre e di ogni violenza: gli stessi cristiani, del resto, per lo più subiscono violenza negli attuali conflitti (ad esempio in Medio Oriente) non in quanto cristiani, ma in quanto vittime indifese della folle violenza di regimi che utilizzano la religione solo come pretesto per i loro scopi. Il silenzio delle chiese di fronte al dramma delle popolazioni dei paesi del Medio Oriente è quindi intollerabile. In sala è stata posta la domanda: “la chiesa può benedire le armi?”. Per quanto retorica possa apparire dal punto di vista del Vangelo (che non ammette dubbi su questo tema), la domanda porta la chiesa a un serio esame di coscienza sul proprio agire: di fatto le armi sono state e ancora vengono benedette, sia letteralmente che in senso metaforico. Ma oggi più che mai – hanno detto alcuni – esiste per le chiese un’alternativa a tale comportamento: usare la parola di cui dispongono per denunciare apertamente e con coraggio la violenza e le guerre e ciò che ad esse conduce.

La tavola rotonda è stata preceduta da alcuni minuti di preghiera, per ricordare insieme le vittime delle guerre in corso, in particolare i due vescovi di Aleppo, Paul Yazigi, della Chiesa Ortodossa di Antiochia, e Youhanna Ibrahim della chiesa Siro-Ortodossa, che si trovano tuttora nelle mani dei rapitori insieme a numerosi altri ostaggi.

Sintesi dei lavori di sabato 6 settembre 2014

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

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La quarta e ultima giornata del convegno, iniziata con la divina liturgia ortodossa celebrata nella chiesa del monastero dall'archimandrita Athenagoras Fasiolo, ha previsto due relazioni conclusive di John Chrissavgis e di Kallistos di Diokleias. La prima ha proposto una lettura dell’intera serie delle beatitudini matteane, sulla falsariga dell’invocazione liturgica “per la pace del mondo intero”, che – come è stato sottolieato – “include ogni angolo della creazione di Dio, fino all’ultimo granello di polvere” consegnandolo alla responsabilità dei cristiani. La seconda, fondandosi soprattutto sull’analisi dei testi liturgici e patristici, ha messo in rilievo i vari aspetti della pace cristiana, sottolineando come in definitiva essa significhi “l’irruzione del regno escatologico nell’attuale ordine mondano” e come essa sia “rivoluzionaria” e tutt’altro che una condizione passiva. Ogni cristiano che partecipa alla liturgia eucaristica riceve il preciso mandato di “procedere in pace”, ovvero di trasmettere al mondo circostante quella pace eucaristica e quella speranza di cui lui stesso è stato colmato: “Cristo ha dato se stesso per te; ora tu sei chiamato a dare te stesso per gli altri!”. La pace “che viene dall’alto”, da Dio, ha necessarie e precise implicazioni sociali, da adempiere quaggiù sulla terra, che chiamano ciascun credente a non rimanere chiuso in sé, ma ad aprirsi al servizio e alla carità: “la dossologia deve diventare diakonia”.

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Il convegno si è poi terminato con le Conclusioni presentate da p. Michel Van Parys a nome del Comitato scientifico del Convegno, che ha fatto sintesi degli stimoli e dei contributi emersi dalle varie relazioni, sottolineando tra l’altro “lo stretto legame tra l’unità della chiesa e la pace nel mondo”, e che tutte le chiese devono “decostruire le false immagini che hanno le une delle altre”, riconoscendo nel pentimento e nella conversione (metanoia) ciascuna le proprie colpe, e che infine le chiese tutte insieme “portano una grave responsabilità nella promozione della pace in questo mondo”. Ha concluso consegnando all’uditorio, a mo’ di congedo e come stimolo di riflessione, un apoftegma dei padri del deserto che ci parla di uno dei quegli “artefici di pace” che a proprio rischio e pericolo ha continuato a sperare e ad agire:

Vi era un anacoreta, un uomo di grande discernimento, che desiderava abitare alle Celle e non trovava una cella pronta. Un altro anziano, che aveva una cella vuota, venuto a conoscenza del desiderio dell’anacoreta, lo supplicò di venire a stabilirsi in quella cella, finché non ne avesse trovata un’altra. L’anacoreta allora vi andò e vi si stabilì. Alcuni anziani del luogo cominciarono a fargli visita, come a un ospite, e ciascuno gli portava quel che poteva. Egli li accoglieva e li ospitava. Ma l’anziano che gli aveva dato la cella, cominciò a provare invidia e a dir male di lui. Diceva: “Io sono rimasto qui per tanti anni, praticando una severa ascesi, e nessuno veniva da me; questo impostore invece è qui da pochi giorni ed ecco che tutti vengono da lui!”. E disse al suo discepolo: “Va’ a dirgli: ‘Va’ via di qui, perché ho bisogno della cella’”. Ma il discepolo andò dall’anziano e gli disse: “Il mio abba chiede come stai”. Quello rispose: “Digli che preghi per me, perché ho mal di stomaco”. Ritornato da chi l’aveva inviato, il fratello disse: “L’anziano ha detto: ‘Ho visto un’altra cella e me ne vado’”. Due giorni dopo, l’anziano disse di nuovo al discepolo: “Va’ e digli che, se non se ne parte, vengo io a scacciarlo con un bastone”. Il fratello ritornò dall’anacoreta e gli disse: “Il mio abba ha saputo che sei malato; ne è molto dispiaciuto e mi ha mandato a farti visita”. Quello gli rispose: “Digli che, grazie alle sue preghiere, sto bene”. Il discepolo ritornò dal suo anziano e gli disse: “Ha detto: ‘Aspetta fino a domani e, se Dio vuole, me ne andrò’”. Giunse la domenica e l’anacoreta non uscì dalla cella. L’anziano allora prese un bastone e partì con l’intenzione di percuoterlo e cacciarlo via. Mentre stava per partire, il discepolo gli disse: “Ti precedo nel caso che si trovino là dei fratelli e ne restino scandalizzati”. L’anziano glielo permise. Il fratello allora corse avanti e disse all’anacoreta: “Il mio abba viene a trovarti e ad accoglierti nella sua cella”. Quello, vedendo l’amore dell’anziano, uscì incontro a lui e gli fece una metanìa da lontano dicendo: “Vengo verso la tua santità, padre. Non ti affaticare”. Dio allora, vedendo l’opera del giovane, mosse a compunzione l’abba che, gettato via il bastone, corse ad abbracciare l’anacoreta. Lo abbracciò e lo condusse nella sua cella, come se quello non avesse udito nulla di quanto egli gli aveva mandato a dire; quindi disse al suo discepolo: “Non gli hai riferito niente di quello che ti avevo detto?”. Quello rispose: “No”. E l’anziano, a queste parole, fu pieno di gioia e capì che l’invidia proveniva dal Nemico e così lasciò in pace l’anziano. Poi cadde ai piedi del suo discepolo e gli disse: “Tu sei mio padre e io tuo discepolo, perché grazie a quello che hai fatto, le nostre due anime sono salve”. (Detti dei padri, N 451, in Detti editi e inediti, a cura di L. Cremaschi e S. Chialà, Qiqajon, Bose 2002, pp. 190-192).

Il priore, a nome della Comunità, ha espresso un ringraziamento al Signore per questi giorni di grazia e di pace, che hanno permesso ancora una volta, nel mistero dell’incontro reciproco, di rinnovare la fiducia gli uni negli altri (v. testo integrale), e ha dato appuntamento a tutti per il prossimo anno.