Immigrazione e accoglienza

Occorre riflettere su quali siano i criteri cui ispirare l’azione politica verso l’immigrazione nel nostro paese: se il criterio fosse solo utilitaristico e ci si limitasse a considerare l’immigrato solo0 come merce da sfruttare, non si andrebbe molto lontano sulla strada della civiltà e dello sviluppo culturale, umano ed economico. In quanto persona umana, l’immigrato – clandestino o no – non vale anzitutto per ciò che può produrre, ma per ciò che è. I diritti fondamentali alla vita, all’istruzione, alla salute, al lavoro, alla convivenza civile e onesta, gli appartengono in modo proprio e originario come appartengono ad ogni cittadino italiano e a ogni abitante del “villaggio globale”, che è il pianeta. Conculcar3 questi diritti, considerare la clandestinità semplicemente come reato senza vagliare le situazioni, difendersi da chi ha bisogno di accoglienza come da un delinquente o da un nemico, è logica che non produce se non frutti di violenza e di sfacelo morale e civile per tutti.
Scommettere sulla persona umana, attrezzare cammini di accoglienza dignitosi e civili, puntare sulla promozione umana di chi ha bisogno di accoglienza e di aiuto: è questa la logica che nel passato ha fatto grandi interi popoli e che può ancora contribuire a preparare un nuovo futuro per il nostro paese. Ma questa logica esige fede nell’uomo, orizzonti grandi di senso e di speranza, tensione etica, e proprio così è premessa di un’Italia migliore: la posta in gioco – al di là dei calcoli politici e delle miopie di parte – appare non solo quella del futuro dell’immigrato, ma del futuro stesso della civiltà e della dignità del nostro essere italiani ed europei. Sul piano etico, come su quello culturale, non ci sono sconti: occorre rimboccarci tutti le maniche per creare una società solidale e accogliente.

B. Forte, La bellezza di Dio, San Paolo, Milano 2006, 156.

Il valore dell’accoglienza

Un tema che investe la nostra convivenza civile è quello dell’immigrazione.
La domanda da porsi come base ad ogni considerazione di carattere morale o politico è semplice, essenziale: chi è l’immigrato clandestino? Se ad essa si risponde pregiudizialmente che l’immigrato è qualcuno da cui difendersi, un nemico contro cui combattere, allora ogni sopruso nei suoi confronti è legittimato. Se invece la risposta è che l’immigrato clandestino è un nostro fratello in umanità che ha bisogno di aiuto e lo chiede, e ha affrontato sradicamenti e sacrifici immani per tentare di realizzare un futuro più degno per sé e i suoi cari, allora il tipo di azione da  sviluppare nei suoi confronti cambia profondamente.
Dal punto di vista etico ed in base anche alla semplice conoscenza dei dati di cui le organizzazioni di accoglienza dispongono, non c’è dubbio che la sola risposta plausibile e corretta sia la seconda. Solo un popolo dalla memoria corta può dimenticare che molti figli della nostra terra, in un tempo tutt’altro che lontano, sono andati a cercare fortuna in paesi stranieri in condizioni non tanto diverse da quelle con cui si presentano a noi oggi la maggioranza dei clandestini. Perché ad essi fu riservata un’accoglienza per lo più di gran lunga diversa da quella dei giudizi persecutori? Gli immigrati sono l’immagine viva di quello che molti dei nostri antenati sono stati, di ciò che noi potremmo ancora essere in un mutamento di scenari storici: ecco perché ognuno dovrebbe riconoscere in chi bussa alle nostre porte per chiedere accoglienza ed aiuto un riflesso di sé, una parte della propria anima e della propria storia, una sfida del proprio futuro e del futuro collettivo dell’umanità.
Se a questo si aggiunge poi la percezione profonda – chiarissima davanti a Dio unico e Padre di tutti – di un’essenziale uguaglianza di ogni essere umano nella dignità e nei diritti personali, allora la semplice memoria storica si carica di un’urgenza etica non sopprimibile: il grado di civiltà di un popolo si misura anche dalla sua capacità di accoglienza e di rispetto del diverso; è proprio dei barbari respingere chi si presenta alla porta povero e indifeso, non chiedendo altro che un aiuto essenziale di cui ogni essere umano ha diritto.  

B. Forte, La bellezza di Dio, San Paolo, Milano 2006, 154-155.

L’identità del cristiano: vivere per servire

Vivere per servire: ecco un ideale davvero bello per un cristiano! Ogni autentico servizio, infatti, ha la sua radice nel mistero di Cristo che per salvarci … pur essendo di natura divina..., spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo (Lettera ai Filippesi 2, 6-7). Gesù è venuto sulla terra per insegnarci a servire. Egli è il nostro modello. Durante l'ultima Cena, dopo la lavanda dei piedi, disse ai suoi discepoli: «Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Giovanni 13, 12-15).

Conformarsi a Cristo significa, dunque, nelle situazioni in cui si vive e si lavora, saper dire con spontaneità:  Sono venuto per servire, non per essere servito» (cf. Matteo 20, 28),  essere cioè sempre a disposizione per il bene degli altri», anzi, «diventare un bene per gli altri». La differenza non è piccola: si tratta di passare dal fare qualcosa a favore dei fratelli, ad essere una persona per gli altri, come Gesù è «per noi».
Questo modo di porsi in relazione a Dio e al prossimo dona alla vita una dimensione nuova: in qualunque stato ci si trovi — consacrati o laici, soli o sposati, sani o malati — sempre si ha una missione da compiere, quella di donarsi. E poiché il donarsi implica l'impegno di una continua conversione per negarsi a se stessi, chi vive in tale dimensione interiore evita di entrare in competizione e in rivalità con i fratelli, non agisce sotto la spinta dell'ambizione e dell'egoismo, fugge l'ostilità, la violenza, l'aggressività, con tutte le tristi conseguenze che purtroppo si esibiscono sulla scena di questo mondo. Allora, anche se in apparenza non occupa un posto di rilevo nella società, il cristiano contribuisce veramente a costruire la « civiltà dell'amore »; là dove vive è una presenza di pace che diffonde attorno a sé carità e spirito di comunione, favorisce la collaborazione e la concordia a tutti i livelli, diventa fermento di giustizia, di santità.

L'ideale del servizio comporta inoltre altre conseguenze. Se uno vive in pace con gli altri non avanza diritti per sé, cerca piuttosto di mettersi nella prospettiva del «dovere». Oggi si parla facilmente di «diritti», ma si pensa meno al fatto che, se ogni persona ha il diritto di essere libera, di avere il necessario per vivere, ciò implica che io ho il dovere di fare per quella persona quanto occorre per il suo bene. Certamente si tratta di un atteggiamento da assumere reciprocamente, di una responsabilità comune. Quanto è importante la reciprocità! Tuttavia, per quanto ci riguarda, dobbiamo soprattutto preoccuparci di compiere il nostro dovere, cioè di servire gli altri con amore, in modo gratuito, anche se non riceviamo dagli altri il contraccambio. Anzi, quando tale disparità dovesse manifestarsi, proprio allora è il momento di vivere il Vangelo alla lettera, senza seguire la mentalità del mondo.

Annamaria Cànopi
Abbadessa del Monastero “Mater Ecclesiae”, isola di S. Giulio d’Orta

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