Conclusioni del Convegno

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

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CONCLUSIONI DEL CONVEGNO

Pronunciate da Michel Van Parys a nome del Comitato Scientifico

Quando la comunità monastica di Bose, un anno fa, al vedere le atrocità commesse durante la guerra civile in Siria, ha scelto come tema del XXII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa il versetto di Mt 5,9: “Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio”, non poteva certo ancora prevedere la drammatica urgenza delle settimane scorse e dei giorni scorsi nel Vicino e Medio Oriente e in Ucraina.

Proviamo un disagio estremo, cent’anni dopo il genocidio armeno seguito da tanti altri nel corso del XX secolo, a parlare di pace, a constatare l’impotenza che ci afferra di fronte alle sofferenze di tanti bambini, genitori, nonni

Come parlare? Ma come possiamo non parlare, non riflettere e non pregare? È ciò che abbiamo fatto insieme mettendoci sotto lo sguardo di Cristo Gesù, nostra pace.
Proverò, come conclusione, a rilevare qualche linea di forza dei nostri scambi, e di suggerire qualche punto che meriterebbe ulteriori approfondimenti.
Diverse relazioni hanno abbozzato una riflessione teologica e antropologica sulla violenza subita e inflitta nella Sacra Scrittura, e più precisamente nei Salmi e nel Vangelo secondo Giovanni (cf. E. Bianchi, La violenza e Dio, Milano 2013)

Non ignoriamo che il cristianesimo, a partire dall’illuminismo, così come il giudaismo e l’islam, sono accusati d’intolleranza. Non possiamo eludere tale questione. Si è citata l’interpretazione allegorica praticata dai padri della Chiesa; essa, se non altro, mostra che la chiesa primitiva era pienamente consapevole del problema, e ha sviluppato un’esegesi che trasponeva la violenza fisica al livello del combattimento spirituale del cristiano contro il principe di questo mondo, il diavolo, padre della menzogna e omicida (cf. Gv 8,44).

Ma forse oggi potremmo proporre al popolo di Dio anche un’altra tradizione patristica complementare, quella tipologica, che, ad esempio, inserisce i salmi nella storia della salvezza, leggendoli alla luce di un tipologia messianica. Non potremmo cercare insieme, noi chiese ancora divise, un’interpretazione “cristica” dei salmi, della violenza che attraversa la Bibbia, dal martirio di Abele ad opera di suo fratello Caino alla guerra totale, escatologica, di cui ci parla il libro dell’Apocalisse (cf. Ap 12; 19,11-21; 20)

Giovanni il Teologo attesta che Gesù, il Cristo, ha vinto il male e la morte con l’agape, l’amore, (eis télos egápesen hautoús), “li amò fino alla fine”, o “fino all’estremo” (Gv 13,1).
Ad esempio: il salmo 4, al versetto 5, si può tradurre dall’ebraico: “Lottate per non peccare, ma custodite il silenzio”. La LXX traduce: “Adiratevi, ma non peccate” (Irascimini et nolite peccare, nella versione latina). L’ira è un impulso necessario per l’aggressività, ma il Signore Gesù ci dà, a più riprese, l’esempio di un’indignazione, di un’ira, che non ha altro fine se non quello di neutralizzare l’ipocrisia o l’indurimento del cuore, personale o comunitario.

Lo possiamo dire en passant: le antiche traduzioni greche e latine della Bibbia hanno già dato avvio a una rilettura del testo ebraico, un’interpretazione infinita che è compito di ogni generazione cristiana, interpretazione che sappia trarre profitto da tutto ciò che le scienze umane possono apportare alla comprensione della Parola di Dio.

I racconti biblici e i salmi riflettono la pedagogia dello Spirito santo, parlano della pazienza di Dio che ci conduce per mano da là dove noi siamo per farci entrare passo a passo nella salvezza che egli ci offre gratuitamente nel e attraverso il Verbo incarnato. Ci parlano anche, se non ancora di più, del nostro indurimento (cf. Sal 94 [95],9), della nostra resistenza a questa offerta della salvezza personale e comunitaria. Le parole “violente” ci ridicono incessantemente il cammino che dobbiamo percorrere: dal rifiuto del fratello al perdono del nemico. Dare un nome alle nostre passioni, ai nostri sentimenti di odio, ai nostri desideri è già una terapia. Dare un nome significa esorcizzarli, discernerli, guarirli. È bene dare un nome agli abissi del cuore umano peccatore. La Bibbia ci aiuta a prenderne coscienza.

I padri della chiesa hanno esplorato la ricchezza della pace, dono di Dio, in Cristo e attraverso il Cristo risorto. Cristo Gesù ci lascia la pace, ci dona la pace, la da non come la da il mondo (cf. Gv 14,27).

La pace ha la sua fonte in Dio, Padre, Figlio e Spirito santo. Per noi essa ha il volto del Figlio incarnato, servo sofferente, mite e umile di cuore, che ritornerà come giudice dei vivi e dei morti. La pace che ci è donata con Dio, riconciliazione tra gli angeli e gli uomini, deve regnare nella chiesa di Dio, tra le chiese e nel cuore dei credenti.

I padri si sono concentrati soprattutto sulla pace interiore, quella del cuore. Quale è la sinergia del battezzato con la grazia? Come si realizza il lungo lavoro della conversione, della metánoia? Con grande realismo hanno riconosciuto che le virtù dell’anima, sempre con l’aiuto dello Spirito santo, indirizzano lungo la via dell’amore, preparano la deificazione. Hanno fatto ricorso, con discernimento, agli strumenti che le tradizioni filosofiche non-bibliche mettevano a loro disposizione per insegnare il cammino dell’amore, che irradia la pace, e per fornire “le armi” contro tutto ciò che ostacola la crescita dell’agape: l’orgoglio, l’invidia, la gelosia, l’angoscia, la collera, l’avarizia, i cattivi desideri… (cf. Mt 15,19; Mc 7,20-23).

La pace, dono del Cristo e frutto dello Spirito santo (cf. Gal 5,22), deve manifestarsi nell’unità e attraverso l’unità della chiesa e delle chiese. Abbiamo ascoltato quanto hanno scritto Clemente di Roma e Ireneo di Lione. Consideriamo come rivolto a noi oggi il problema posto dalla concisa affermazione del vescovo di Lione a papa Vittore di Roma: “Il disaccordo (diaphonía) sul digiuno conferma l’accordo (homónoia) della fede” (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica V,24,12-13).

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Al pari della santa Scrittura, la dottrina dei padri della chiesa deve essere accolta da ogni nuova generazione di credenti. Potremmo forse ampliare l’affermazione di Ireneo di Lione riproponendola in questi termini: “Il disaccordo sulle osservanze e la diversità delle formulazioni teologiche confermano la nostra unanimità nella fede?”. Sappiamo che nel sinodo del 362, ad Alessandria, Atanasio stesso ne ha dato conferma: la diversità delle formulazioni teologiche è legittima se la confessione di fede è unanimemente concorde.

Diverse volte si è citato, quasi incidentalmente, Basilio il Grande. I dissensi nella chiesa di Cristo sono stati per lui oggetto di grande sofferenza. Più di altri padri ha lavorato per la pace e l’unità della chiesa, vi ha riflettuto instancabilmente. Ritrovare la pace e l’unità della chiesa per la quale il Signore Cristo ha versato il suo sangue sulla croce, non lo si può fare che a una sola e unica condizione: l’obbedienza integrale delle chiese e dei credenti alla parola di Dio. Quando Basilio parla del raffreddamento dell’amore (cf. Mt 24,12), parla della disobbedienza alla parola di Dio. Ascoltiamo un passo tratto da una lettera alla chiesa di Tarso:

C’è bisogno di dire a dei figli della pace che cos’è il bene della pace? Poiché, dunque, questa cosa grande, mirabile e degna di essere ardentemente cercata da tutti quelli che amano il Signore, corre ormai il rischio di essere ridotta a un puro nome, poiché l’iniquità si è moltiplicata a motivo del raffreddamento dell’amore presso i più (cf. Mt 24,12), ritengo sia bene che quelli che servono il Signore in tutta sincerità e verità abbiano come unico scopo delle loro fatiche quello di ricondurre all’unità le chiese divise tra loro in tante frazioni e in tanti modi… Niente è proprio del cristiano quanto lavorare per la pace; perciò il Signore ci ha promesso per questo una grandissima ricompensa (cf. Mt 5,9) (Basilio il Grande, Lettere 114).

Qual è il legame tra l’unità della chiesa e la pace nel nostro mondo? Ci è parso che questo legame esista e che sia molto stretto. “Il vincolo della pace” (syndesmós tês eirénes) può e deve placare i conflitti e le guerre di cui l’umanità è vittima… Le chiese hanno un’enorme responsabilità nella promozione della pace in questo mondo.

La Divina liturgia racchiude un’immensa ricchezza a questo proposito. Essa ridice instancabilmente il dono della pace che le dona il Cristo risorto. Subito dopo la benedizione del regno di Dio, Padre, Figlio e Spirito santo, l’assemblea eucaristica è invitata a “pregare il Signore nella pace” (en eiréne toû Kyríou deethômen), a invocare la pace con il fratello, anche con quello che ha qualcosa contro di noi, pace tra le chiese di Dio, pace per il mondo intero. Vi è qui una possibilità di catechesi a partire dalla pace annunciata nella Divina liturgia che dovrebbe ispirare la predicazione dei pastori.

Non sarebbe anche il caso di togliere, o di non utilizzare più, gli anatemi presenti nei libri liturgici contro le altre chiese? Pensiamo agli anatemi contro papa Leone o contro Severo di Antiochia. Forse avevano una certa utilità pastorale in una determinata epoca, ma oggi non finiscono per rinchiuderci in un’identità ecclesiale esclusiva?

Le nostre chiese hanno tutte accettato, quando ne avevano la possibilità, la “coercizione”, il ricorso alla violenza, con o senza l’appoggio del “braccio secolare” per reprimere l’eresia, a motivo della sua diversa formulazione dogmatica. La politica ha abusivamente utilizzato la chiesa, le chiese, così come le chiese hanno abusato della loro influenza sulla società. Quale sinfonia tra trono e altare, nel rispetto di ciò che spetta a Dio e di ciò che spetta a Cesare?

Permettetemi di raccontare a questo proposito un’esperienza personale. Ormai molti anni fa, avevo studiato gli atti e la storia dei concili di Efeso (431) e di Calcedonia (451). Avevo appreso che il patriarca Flaviano di Costantinopoli era morto in seguito ai maltrattamenti inflittigli dai monaci copti nel sinodo di Efeso del 449 (il famoso latrocinio della storiografia calcedonese). Quando visitai per la prima volta il monastero di San Macario a Scete, fui invitato a venerare le reliquie del vescovo Macario, morto in seguito ai colpi e alle ferite inflitte dai monaci calcedonesi. Per me fu uno choc salutare! Non posso far altro che sperare che i due racconti siano frutto di leggende, ma questi due racconti la dicono lunga sulla costruzione e sul mantenimento nel corso del tempo nella memoria della chiesa dei torti subiti da parte dell’altra chiesa, dimenticando il torto inflitto dalla propria chiesa.

Il problema che ci viene posto, e che resta attuale, è quello della responsabilità delle nostre chiese e, in particolare, dei loro pastori e teologi, di de-costruire, attraverso una catechesi irenica, le immagini fittizie o reali dell’altra chiesa. Come de-costruire queste immagini falsate? Certamente attraverso l’ascolto del racconto delle sofferenze comunitarie e personali dell’altro; poi, attraverso l’umile e paziente lavoro dell’investigazione storica; infine, con la metánoia, la conversione, assumendo il passato della “coercizione” morale o fisica attuata dalla mia chiesa o dalla mia nazione. Riconoscere questo passato come proprio, purifica la nostra memoria e ci conduce a chiedere perdono. Non si tratterebbe di una delle forme dell’amore per i nemici che tanto aveva a cuore Silvano del Monte Athos?

Un primo passo in questa direzione sarebbe quello di rinunciare a riattivare la memoria delle ferite del passato. Non si tratta di negarle, perché le ferite cicatrizzate del corpo risorto di Gesù restano. Ci è sembrato che le chiese siano chiamate a discernere “gli spiriti che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12), a non lasciarsi sedurre dalla propaganda ideologica e manipolatrice dell’opinione pubblica, a trascendere le passioni nazionalistiche o identitarie.

Le nostre chiese sono chiamate a diventare dei laboratori della pace di Dio (ergastéria tês eirénes toû Theoû), a cercare con impazienza di purificarsi per ricevere dal loro Signore il dono dell’unità. È questa la condizione assolutamente necessaria per la credibilità della loro testimonianza dell’amore di Dio e della pace che egli dona loro, “perché siano una cosa sola, come noi” (Gv 17,11).

Abbiamo parlato anche dei testimoni della pace.

I santi, canonizzati o meno, confortano la nostra speranza: anche noi possiamo diventare “artefici di pace” (Mt 5,9). Sono state evocate davanti ai nostri occhi sette figure di “pacificatori”: Francesco di Assisi, Nerses di Lambron, Silvano del Monte Athos, padre Stefan Zankov, padre André Scrima. A questi occorre aggiungere Nikolaj Nepluev, la cui fraternità ha fatto “abbracciare la giustizia [sociale] e la pace” (cf. Sal 84 [85],11), e, infine, il patriarca Athenagoras, al quale dobbiamo tutti un’immensa gratitudine. È stato artefice di pace con Paolo VI abolendo gli anatemi tra la chiesa di Roma e la chiesa di Costantinopoli. Il 7 dicembre del 2015 celebreremo il cinquantesimo di questo evento. Ho un sogno… Perché il prossimo anno non canonizzare nello stesso giorno Paolo VI a Roma e il patriarca Athenagoras al Phanar? Sarebbe un segno che la loro santa amicizia continua a portare il frutto dello Spirito, la pace, nelle nostre chiese. La speranza non delude!

Termino con una storia dei padri del deserto, che ci parla di umili artigiani di pace, che a loro rischio e pericolo continuano ad agire e a sperare. Questa storia ci fa pensare. La riporto come conclusione:
Vi era un anacoreta, un uomo di grande discernimento, che desiderava abitare alle Celle e non trovava una cella pronta. Un altro anziano, che aveva una cella vuota, venuto a conoscenza del desiderio dell’anacoreta, lo supplicò di venire a stabilirsi in quella cella, finché non ne avesse trovata un’altra. L’anacoreta allora vi andò e vi si stabilì. Alcuni anziani del luogo cominciarono a fargli visita, come a un ospite, e ciascuno gli portava quel che poteva. Egli li accoglieva e li ospitava. Ma l’anziano che gli aveva dato la cella, cominciò a provare invidia e a dir male di lui. Diceva: “Io sono rimasto qui per tanti anni, praticando una severa ascesi, e nessuno veniva da me; questo impostore invece è qui da pochi giorni ed ecco che tutti vengono da lui!”. E disse al suo discepolo: “Va’ a dirgli: ‘Va’ via di qui, perché ho bisogno della cella’”. Ma il discepolo andò dall’anziano e gli disse: “Il mio abba chiede come stai”. Quello rispose: “Digli che preghi per me, perché ho mal di stomaco”. Ritornato da chi l’aveva inviato, il fratello disse: “L’anziano ha detto: ‘Ho visto un’altra cella e me ne vado’”. Due giorni dopo, l’anziano disse di nuovo al discepolo: “Va’ e digli che, se non se ne parte, vengo io a scacciarlo con un bastone”. Il fratello ritornò dall’anacoreta e gli disse: “Il mio abba ha saputo che sei malato; ne è molto dispiaciuto e mi ha mandato a farti visita”. Quello gli rispose: “Digli che, grazie alle sue preghiere, sto bene”. Il discepolo ritornò dal suo anziano e gli disse: “Ha detto: ‘Aspetta fino a domani e, se Dio vuole, me ne andrò’”. Giunse la domenica e l’anacoreta non uscì dalla cella. L’anziano allora prese un bastone e partì con l’intenzione di percuoterlo e cacciarlo via. Mentre stava per partire, il discepolo gli disse: “Ti precedo nel caso che si trovino là dei fratelli e ne restino scandalizzati”. L’anziano glielo permise. Il fratello allora corse avanti e disse all’anacoreta: “Il mio abba viene a trovarti e ad accoglierti nella sua cella”. Quello, vedendo l’amore dell’anziano, uscì incontro a lui e gli fece una metanìa da lontano dicendo: “Vengo verso la tua santità, padre. Non ti affaticare”. Dio allora, vedendo l’opera del giovane, mosse a compunzione l’abba che, gettato via il bastone, corse ad abbracciare l’anacoreta. Lo abbracciò e lo condusse nella sua cella, come se quello non avesse udito nulla di quanto egli gli aveva mandato a dire; quindi disse al suo discepolo: “Non gli hai riferito niente di quello che ti avevo detto?”. Quello rispose: “No”. E l’anziano, a queste parole, fu pieno di gioia e capì che l’invidia proveniva dal Nemico e così lasciò in pace l’anziano. Poi cadde ai piedi del suo discepolo e gli disse: “Tu sei mio padre e io tuo discepolo, perché grazie a quello che hai fatto, le nostre due anime sono salve”. (Detti dei padri, N 451, in Detti editi e inediti, a cura di L. Cremaschi e S. Chialà, Qiqajon, Bose 2002, pp. 190-192).

Sintesi dei lavori di mercoledì 3 settembre 2014

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
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SINTESI DEI LAVORI DI MERCOLEDÌ 3 SETTEMBRE 2014

La prima giornata del convegno si è aperta e si è svolta in un clima di pace e di fraternità tra i partecipanti. Il priore di Bose e presidente del comitato scientifico del convegno, fr. Enzo Bianchi, ha salutato l’inizio dei lavori sottolineando la (purtroppo) scottante attualità del tema, a causa delle numerose guerre che in questo momento sono in corso in vari luoghi del pianeta, e ha ricordato a tale proposito le recenti parole del Santo Padre Francesco, secondo il quale siamo oggi di fronte alla “terza guerra mondiale, anche se combattuta a capitoli” e non tutta insieme. Prima dell’inizio dei lavori, è stata data lettura dei principali messaggi dei capi delle chiese rappresentate in sala, che hanno voluto rivolgere il loro saluto ai partecipanti ed esprimere la loro piena consonanza sul bisogno di una riflessione seria riguardo al tema della pace: il Metropolita Athenagoras del Belgio ha letto il messaggio di S. S. il Patriarca Ecumenico Bartholomeos; il vescovo Kliment, a capo della delegazione del Patriarcato di Mosca, ha letto il messaggio del Metropolita Ilarion di Volokolamsk a nome di S. S. il patriarca di Mosca Kirill; infine lo stesso priore Enzo ha dato lettura del telegramma del Card. Pietro Parolin, segretario di Stato di Sua Santità, che ha trasmesso la benedizione del Santo Padre Francesco. Di seguito, la relazione iniziale di Aristotle Papanikolaou, dell’università di Fordham, è servita a impostare il tema nelle sue linee generali: attraverso una sapiente lettura, che cercava di combinare le fonti tradizionali della teologia ortodossa (Bibbia e Padri) con i dati delle scienze umane, il relatore, ha proposto un’antropologia cristiana della pace, indicando l’amore (declinato come perdono) come la via cristiana della pace, che pur non cancellando o superando la violenza, permette tuttavia di convivere con essa, di viverla dall’interno in un’altra dimensione (il Cristo risorto, ha ricordato, conserva le ferite ricevute sulla croce, nonostante esse siano ormai assunte nella sua condizione di risorto). In modo simile il secondo relatore, il biblista russo Michail Seleznev, nel cercare di giustificare la scandalosa presenza della violenza nel Salterio, il libro per eccellenza della preghiera ebraico-cristiana, ha proposto di vedere in questi testi un mezzo per confessare e manifestare onestamente di fronte a Dio (senza nasconderla) la violenza che abita l’uomo, come necessaria premessa della sua trasfigurazione in una prospettiva più propriamente cristiana.

Aristotle Papanikolaou, Per un'antropologia cristiana della pace (TESTO INTEGRALE)

 

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Le conferenze del pomeriggio hanno completato la presentazione generale del tema, affrontandolo dal punto di vista della teologia neotestamentaria, in particolare del vangelo di Giovanni (Christos Karakolis), della teologia liturgica (Metropolita Andrej di Austria, Svizzera e Malta) e della teologia patristica (Porphyrios Giorgi). Il pomeriggio si è concluso con una vivace discussione, con numerosi interventi da parte del pubblico presente in sala, in cui sono state poste alcune delle questioni più spinose con cui si confrontano oggi le chiese cristiane, in particolare ortodosse (“la pace evangelica è pura utopia?”, “in che misura si può ammettere una violenza legittima?”, “la chiesa può benedire le armi?”, “cosa fare di fronte all’oppressore dell’innocente?”). In linea generale, comunque, la condanna della violenza e la sua impossibile conciliazione con la prospettiva cristiana ed evangelica è stata unanime da parte dei relatori. Le chiese, è stato affermato, se sono fedeli alla loro missione, possono solo essere ponti di unione e di pace, mai elemento che favorisce la guerra e la divisione.

Sintesi dei lavori di giovedì 4 settembre 2014

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
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La seconda giornata del convegno è stata dedicata ad approfondire il tema della pace nella tradizione spirituale delle chiese cristiane, già impostato nelle sue linee generali durante il primo giorno. Le tre conferenze del mattino, in particolare, sono state dedicate a tre case studies, che in contesti diversi mostrano declinazioni e aspetti particolari della pace evangelica: san Clemente di Roma, l’autore della celebre Prima lettera ai Corinti (ma anche il Clemente “costruito” dalla tradizione agiografica posteriore soprattutto slava) è il santo vescovo che ristabilisce la pace all’interno del corpo ecclesiale minacciato dalla divisione (Daria Morozova); sant’Ireneo di Lione, il grande padre della chiesa e teologo del II secolo, è il portatore di pace nei conflitti tra le comunità, che promuove uno stile di riconciliazione inter-ecclesiale capace di considerare le differenze nella pratica come una testimonianza dell’unità nella fede (John Behr); i padri della tradizione ascetico-monastica del deserto, infine, nella loro vita come nei loro scritti, pur non ignorando gli altri aspetti, danno una preminenza all’aspetto interiore della pace, la “pace di Dio in noi” che vince le passioni che abitano l’uomo (Symeon Paschalidis).

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La prima conferenza del pomeriggio (Cyril Hovorun) ha affrontato il tema cruciale (con ricadute ancora molto attuali) dell’uso della violenza e della coercizione nel quadro delle relazioni tra chiesa e stato, mostrando come la chiesa nella tarda antichità, a partire dalla “pace costantiniana”, abbia troppo facilmente rinnegato le proprie radici evangeliche per lasciarsi influenzare dai metodi coercitivi propri dell’istituzione imperiale romana: solo la modernità e l’avvento del pluralismo l’hanno aiutata a superare progressivamente questa grave e indebita alterazione del messaggio evangelico per riscoprire la propria autentica natura non-violenta. Le ultime tre conferenze del pomeriggio sono state dedicate a tre grandi figure di “testimoni della pace” che, per appartenendo a tre diverse tradizioni ecclesiali ufficialmente non in comunione tra di loro (quella cattolica-latina, quella armena, e quella bizantino-slava), hanno manifestato la loro intima sintonia, vivendo e testimoniando in modo simile l’autentica pace evangelica: san Francesco di Assisi (Panaghiotis A. Yfantis), san Narses di Lambron (Adam Makaryan) e san Silvano dell’Athos (Sr. Magdalen di Maldon). Quest’ultimo, in particolare, è uno dei grandi santi del XX secolo, che nei suoi scritti ha mostrato lo stretto e intimo legame tra la pace intesa in senso evangelico e l’amore dei nemici, il punto più alto della scala dell’amore, perché – affermava – “chi non ama i suoi nemici non troverà mai pace, neppure se fosse posto in paradiso”; ma noi possiamo amare i nemici solo in virtù di una grazia dello Spirito santo.

LEGGI: Panaghiotis A. Yfantis, Francesco di Assisi, un testimone della pace (testo completo)

LEGGI: Sr. Magdalen di Maldon, La pace interiore e l’amore per il nemico: san Silvano dell’Athos (testo completo)

I lavori del convegno, come il giorno precedente, sono stati scanditi dalla preghiera liturgica della Comunità, che oggi ha celebrato la memoria di san Mosè profeta, che la tradizione biblica e patristica ricordano come “l’amico di Dio” e “il più mite tra tutti gli uomini”.

Dopo il pranzo un gruppo di ortodossi partecipanti al convegno, su invito del vescovo + Filaret di Leopoli e Galizia, si è radunato nella chiesa della comunità per celebrare una supplica (litia) in memoria del centenario della deportazione, da parte delle autorità austro-ungariche, degli ucraini rumeni nel campo di concentramento di Talerhof (Austria).

Nel pomeriggio, l'Archimandrita Athenagoras Fasiolo, della Metropoli ortodossa d'Italia, nel rivolgere ai partecipanti il saluto e il ringraziamento del Metropolita Ghennadios d'Italia, ha reso nota l'iniziativa intrapresa dalla comunità monastica di Montaner (Treviso) per la ricostruzione della chiesa del suo monastero recentemente distrutta a causa di un incendio

Sintesi dei lavori di venerdì 5 settembre 2014

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
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SINTESI DEI LAVORI DI VENERDÌ 5 SETTEMBRE 2014

Nella terza mattinata del convegno è proseguita la presentazione dei “testimoni della pace”, focalizzandosi su quattro grandi figure della recente storia della chiesa, che hanno aperto cammini di pace e di riconciliazione contribuendo ad abbattere i muri della divisione e del sospetto: 1) Nikolaj Nepluev (Natalija Ignatovich), fondatore in Russia della “Fraternità ortodossa di lavoro dell’Esaltazione della croce”, che cercava di promuovere l’ideale della pace tra gli uomini attraverso una vita evangelica basata sulla fede, sull’amore e sul lavoro; 2) il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Athenagoras (Athenagoras del Belgio), uomo evangelico di pace e promotore del “dialogo della carità” tra le chiese, che riteneva che “senza ritorno alla religione dell’amore e del perdono, la pace non potrà regnare”; 3) il teologo bulgaro Stefan Zankov (Viktor Mutafov), uno dei pionieri del movimento ecumenico, che lavorò ugualmente per aprire la strada al dialogo tra i cristiani delle diverse confessioni; 4) André Scrima (Anca Manolescu), teologo rumeno, archimandrita del Patriarcato ecumenico, promotore di un dialogo profondo tra le religioni, che faccia spazio a quel “silenzio” trascendente di Dio che precede ogni parola umana, e a quella “pace” presente al cuore delle stesse religioni che assicura la possibilità stessa del dialogo, e ciò allo scopo di giungere ad approfondire insieme il mistero di Dio, tendendo parallelamente verso la sua infinità di vita e di senso. Nelle discussioni in sala si è accennato ai frutti viventi e concreti che l’opera di questi autentici “pacificatori” hanno lasciato in eredità alle rispettive chiese, plasmando un’ortodossia serenamente aperta all’incontro e al dialogo con gli “altri”. La via aperta da questi pionieri – si è sottolineato – è senza ritorno e, nonostante le resistenze da parte di gruppi minoritari (ma spesso molto capaci di far sentire la propria voce, facendola passare per “la voce dell’ortodossia”), è largamente accolta dall’insieme del popolo di Dio presente nelle varie chiese ortodosse.

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Al pomeriggio si è svolta una tavola rotonda sul tema del convegno, presiedeuta da Jim Forest e con la partecipazione di Amal Dibo (Beirut, Libano), Pantelis Kalaitzidis (Volos, Grecia), Aleksander Ogorodnikov (Mosca, Russia), Konstantin Sigov (Kiev, Ucraina). Alla discussione ha preso parte attiva anche il pubblico presente. Molte le questioni affrontate, alcune delle quali, come era prevedibile, direttamente legate alla recente attualità delle guerre in Ucraina e in Medio Oriente. Da parte di molti è stata affermata la necessità che le chiese ortodosse si liberino dal nazionalismo e dai legami con gli stati nazionali in cui si trovano a vivere: la fede cristiana – è stato affermato – non ammette la sacralizzazione di nessuna terra, poiché “tutta la terra appartiene a Dio”, e ovunque i cristiani si trovino a vivere, devono avere sempre la coscienza di essere anche e soprattutto cittadini di un’altra terra, quella celeste ed escatologica, e che nessuna terra quaggiù può appartenere loro in modo stabile. Si è affermata quindi l’urgente necessità per la Chiesa – per ogni chiesa – nel contesto degli attuali conflitti, di non difendere soltanto i “suoi”, ma tutte le vittime senza distinzioni, di tutte le guerre e di ogni violenza: gli stessi cristiani, del resto, per lo più subiscono violenza negli attuali conflitti (ad esempio in Medio Oriente) non in quanto cristiani, ma in quanto vittime indifese della folle violenza di regimi che utilizzano la religione solo come pretesto per i loro scopi. Il silenzio delle chiese di fronte al dramma delle popolazioni dei paesi del Medio Oriente è quindi intollerabile. In sala è stata posta la domanda: “la chiesa può benedire le armi?”. Per quanto retorica possa apparire dal punto di vista del Vangelo (che non ammette dubbi su questo tema), la domanda porta la chiesa a un serio esame di coscienza sul proprio agire: di fatto le armi sono state e ancora vengono benedette, sia letteralmente che in senso metaforico. Ma oggi più che mai – hanno detto alcuni – esiste per le chiese un’alternativa a tale comportamento: usare la parola di cui dispongono per denunciare apertamente e con coraggio la violenza e le guerre e ciò che ad esse conduce.

La tavola rotonda è stata preceduta da alcuni minuti di preghiera, per ricordare insieme le vittime delle guerre in corso, in particolare i due vescovi di Aleppo, Paul Yazigi, della Chiesa Ortodossa di Antiochia, e Youhanna Ibrahim della chiesa Siro-Ortodossa, che si trovano tuttora nelle mani dei rapitori insieme a numerosi altri ostaggi.

Sintesi dei lavori di sabato 6 settembre 2014

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

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La quarta e ultima giornata del convegno, iniziata con la divina liturgia ortodossa celebrata nella chiesa del monastero dall'archimandrita Athenagoras Fasiolo, ha previsto due relazioni conclusive di John Chrissavgis e di Kallistos di Diokleias. La prima ha proposto una lettura dell’intera serie delle beatitudini matteane, sulla falsariga dell’invocazione liturgica “per la pace del mondo intero”, che – come è stato sottolieato – “include ogni angolo della creazione di Dio, fino all’ultimo granello di polvere” consegnandolo alla responsabilità dei cristiani. La seconda, fondandosi soprattutto sull’analisi dei testi liturgici e patristici, ha messo in rilievo i vari aspetti della pace cristiana, sottolineando come in definitiva essa significhi “l’irruzione del regno escatologico nell’attuale ordine mondano” e come essa sia “rivoluzionaria” e tutt’altro che una condizione passiva. Ogni cristiano che partecipa alla liturgia eucaristica riceve il preciso mandato di “procedere in pace”, ovvero di trasmettere al mondo circostante quella pace eucaristica e quella speranza di cui lui stesso è stato colmato: “Cristo ha dato se stesso per te; ora tu sei chiamato a dare te stesso per gli altri!”. La pace “che viene dall’alto”, da Dio, ha necessarie e precise implicazioni sociali, da adempiere quaggiù sulla terra, che chiamano ciascun credente a non rimanere chiuso in sé, ma ad aprirsi al servizio e alla carità: “la dossologia deve diventare diakonia”.

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Il convegno si è poi terminato con le Conclusioni presentate da p. Michel Van Parys a nome del Comitato scientifico del Convegno, che ha fatto sintesi degli stimoli e dei contributi emersi dalle varie relazioni, sottolineando tra l’altro “lo stretto legame tra l’unità della chiesa e la pace nel mondo”, e che tutte le chiese devono “decostruire le false immagini che hanno le une delle altre”, riconoscendo nel pentimento e nella conversione (metanoia) ciascuna le proprie colpe, e che infine le chiese tutte insieme “portano una grave responsabilità nella promozione della pace in questo mondo”. Ha concluso consegnando all’uditorio, a mo’ di congedo e come stimolo di riflessione, un apoftegma dei padri del deserto che ci parla di uno dei quegli “artefici di pace” che a proprio rischio e pericolo ha continuato a sperare e ad agire:

Vi era un anacoreta, un uomo di grande discernimento, che desiderava abitare alle Celle e non trovava una cella pronta. Un altro anziano, che aveva una cella vuota, venuto a conoscenza del desiderio dell’anacoreta, lo supplicò di venire a stabilirsi in quella cella, finché non ne avesse trovata un’altra. L’anacoreta allora vi andò e vi si stabilì. Alcuni anziani del luogo cominciarono a fargli visita, come a un ospite, e ciascuno gli portava quel che poteva. Egli li accoglieva e li ospitava. Ma l’anziano che gli aveva dato la cella, cominciò a provare invidia e a dir male di lui. Diceva: “Io sono rimasto qui per tanti anni, praticando una severa ascesi, e nessuno veniva da me; questo impostore invece è qui da pochi giorni ed ecco che tutti vengono da lui!”. E disse al suo discepolo: “Va’ a dirgli: ‘Va’ via di qui, perché ho bisogno della cella’”. Ma il discepolo andò dall’anziano e gli disse: “Il mio abba chiede come stai”. Quello rispose: “Digli che preghi per me, perché ho mal di stomaco”. Ritornato da chi l’aveva inviato, il fratello disse: “L’anziano ha detto: ‘Ho visto un’altra cella e me ne vado’”. Due giorni dopo, l’anziano disse di nuovo al discepolo: “Va’ e digli che, se non se ne parte, vengo io a scacciarlo con un bastone”. Il fratello ritornò dall’anacoreta e gli disse: “Il mio abba ha saputo che sei malato; ne è molto dispiaciuto e mi ha mandato a farti visita”. Quello gli rispose: “Digli che, grazie alle sue preghiere, sto bene”. Il discepolo ritornò dal suo anziano e gli disse: “Ha detto: ‘Aspetta fino a domani e, se Dio vuole, me ne andrò’”. Giunse la domenica e l’anacoreta non uscì dalla cella. L’anziano allora prese un bastone e partì con l’intenzione di percuoterlo e cacciarlo via. Mentre stava per partire, il discepolo gli disse: “Ti precedo nel caso che si trovino là dei fratelli e ne restino scandalizzati”. L’anziano glielo permise. Il fratello allora corse avanti e disse all’anacoreta: “Il mio abba viene a trovarti e ad accoglierti nella sua cella”. Quello, vedendo l’amore dell’anziano, uscì incontro a lui e gli fece una metanìa da lontano dicendo: “Vengo verso la tua santità, padre. Non ti affaticare”. Dio allora, vedendo l’opera del giovane, mosse a compunzione l’abba che, gettato via il bastone, corse ad abbracciare l’anacoreta. Lo abbracciò e lo condusse nella sua cella, come se quello non avesse udito nulla di quanto egli gli aveva mandato a dire; quindi disse al suo discepolo: “Non gli hai riferito niente di quello che ti avevo detto?”. Quello rispose: “No”. E l’anziano, a queste parole, fu pieno di gioia e capì che l’invidia proveniva dal Nemico e così lasciò in pace l’anziano. Poi cadde ai piedi del suo discepolo e gli disse: “Tu sei mio padre e io tuo discepolo, perché grazie a quello che hai fatto, le nostre due anime sono salve”. (Detti dei padri, N 451, in Detti editi e inediti, a cura di L. Cremaschi e S. Chialà, Qiqajon, Bose 2002, pp. 190-192).

Il priore, a nome della Comunità, ha espresso un ringraziamento al Signore per questi giorni di grazia e di pace, che hanno permesso ancora una volta, nel mistero dell’incontro reciproco, di rinnovare la fiducia gli uni negli altri (v. testo integrale), e ha dato appuntamento a tutti per il prossimo anno.

Ringraziamenti finali di Enzo Bianchi

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

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Io vorrei semplicemente esprimere un grande ringraziamento innanzitutto al Signore. Non è difficile per noi riconoscere che il Signore ci accompagna in questi convegni, che il Signore ci custodisce e ci permette di rinnovare la fiducia gli uni negli altri, la fiducia nel confronto, nel dialogo, la fiducia nel poter camminare insieme verso una comunione più profonda che lo Spirito Santo prepara in ciascuno dei nostri cuori, nelle nostre comunità e nelle nostre chiese. Il ringraziamento al Signore è quello che noi esprimiamo sempre nella preghiera, perché ogni preghiera è eucaristia, è ringraziamento, per tutti i doni che il Signore ci fa. Ma di tutti i doni il più importante è il dono della sua misericordia, l’unico dono di cui abbiamo veramente bisogno. E se noi abbiamo la misericordia del Signore su di noi, diventiamo anche noi misericordiosi, a immagine del suo Nome santo e glorioso, e dalla sua misericordia traiamo la possibilità di essere operatori di pace. Al termine di questo XXII Convegno Ecumenico, il ringraziamento si lega forzatamente a una epiclesi, a una domanda di pace. Questa domanda noi la facciamo al Signore perché le nostre chiese sempre hanno bisogno della sua pace ma in questo momento ne hanno particolarmente bisogno. Alcuni interventi, alcuni contributi al convegno hanno certamente indicato una pista di meditazione perché noi diventiamo costruttori di pace, proprio accogliendo la nostra debolezza e riconoscendo il nostro peccato e invocando la misericordia del Signore. La pace non viene dalla forza, la pace non viene da nessuna superiorità, la pace non viene da nessuna grandezza mondana, la pace non viene da nessun potere e da nessun riconoscimento di questo mondo. L’uomo di pace, non dimentichiamolo, secondo il Vangelo è l’Adam debole, l’uomo per eccellenza: Gesù Cristo, che flagellato e incoronato di spine è presentato da Pilato come l’uomo vero, l’uomo che Dio ha sempre pensato, l’uomo che dà la vita per gli altri, l’uomo nel quale Dio stesso si è dato per tutti noi amandoci fino a consegnare suo figlio. Nelle nostre vite, come diceva l’archimandrita Sofronio, la pace è una forza di dolcezza e di mitezza, una mitezza e una dolcezza che possono essere accolte da ciascuno di noi, se noi sappiamo invocare il Signore. Allora la pace che vogliamo costruire nelle nostre comunità e nelle nostre chiese è una pace che tiene sempre davanti agli occhi la comunione, perché se noi cristiani non sappiamo vivere la comunione, non sappiamo cercare la comunione non sappiamo neanche darci la pace. Non dimentichiamo che al cuore di ogni nostra liturgia eucaristica di tutte le chiese il Signore che si fa presente in mezzo a noi fa come suo dono la pace: “La pace sia con voi”. Ecco la fonte della nostra pace. Ma nel quotidiano noi dobbiamo impegnare tutte le nostre energie e predisporre tutto nelle nostre vite perché lo Spirito Santo possa agire e possa ispirare pensieri e azioni di pace. Il nostro convegno è stato un incontro, credo che possiamo dire anche molto leale. Alcune volte ha anche toccato dei punti difficili e scottanti, che potevano essere causa di una certa contraddizione, ma non lo sono stati: abbiamo mantenuto la pace perché il Signore ha regnato al di sopra di noi e nei nostri cuori più dei nostri pensieri e delle nostre parole. Ed ecco allora questo convegno - che come tutti gli altri ha avuto la benedizione del Patriarcato ecumenico e del Patriarcato di Mosca, che ci hanno sempre sostenuto e incoraggiato, ma anche dalle altre chiese ortodosse - questo nostro convegno vuole essere sempre un’occasione di pace e di amicizia, qualunque tema sia alla nostra considerazione.

E allora permettetemi di concludere davvero con i ringraziamenti. I ringraziamenti sono sempre un insieme di nomi e possono sembrare sonoramente anche qualcosa di noioso, ma quando diciamo il nome di una persona noi lo diciamo in Dio e davanti a Dio e allora il nostro ringraziamento diventa qualcosa che possiamo seguire con convinzione, con il cuore, come una vera e propria epiclesi. Ecco allora, il ricordo del Patriarca di Costantinopoli Bartholomeos e del Metropolita delegato Athenagoras del Belgio, del Metropolita di Diokleia Kallistos, senza dimenticare l’arcidiacono John Chryssavghìs e l’archimandrita del Trono Ecumenico Athenagoras. Li ringraziamo. E la celebrazione della Divina Liturgia sta mattina, che non abbiamo condiviso però ci ha fatto sentire come l’unico battesimo ci faceva riconoscere Cristo presente come Risorto in mezzo a noi. Il Patriarca di Mosca Kiril, il Metropolita Zossìma, che è tornato con grande bontà in mezzo a noi, il Vescovo Kliment capo delegazione, con padre Alexei e padre Arsenij; i vescovi Filaret di Lviv e Galizia, delegato del Metropolita Onufrij della Chiesa ortodossa ucraina e il Vescovo Ilarij di Makariv; i monaci della lavra delle grotte; il Vescovo Stefan di Gòmel e Zlobin, dell’Esarcato di Bielorussia, ritornato in mezzo a noi per rappresentare il Metropolita Pavel. Ringrazio tutte le Chiese che hanno inviato i loro rappresentanti o messaggi di fraterna partecipazione, che voi troverete tutti sul sito internet della nostra comunità. E ci ha rallegrato molto il messaggio del Patriarca di Bulgaria, Neofìt, e del Santo Sinodo della Chiesa copta ortodossa.

I Vescovi che hanno frequentato il convegno e ci hanno visitato. La lista è lunga. Nomino quelli che sono qui: l’ArciVescovo Antonio Mennini, Nunzio apostolico in Gran Bretagna, il Vescovo di Volterra Alberto Silvani; poi i membri e delegati del Pontificio consiglio per l’Unità dei cristiani: padre Hyacinthe Destivelle, monsignor Andrea Palmieri e padre Milan Zust; padre Porfyrios decano di Balamand, rappresentante del Patriarca greco ortodosso di Antiochia Yuhanna, il Vescovo Andrej di Austria, delegato del Patriarca Irinej di Serbia, col fedele monaco Vassilj Grolimund, il Metropolita Serafim di Germania della Chiesa ortodossa romena, grande amico tanto fedele; il Metropolita Antonij dell’Europa centrale e occidentale e il Metropolita Dometian di Vidin del Patriarcato di Bulgaria; il Vescovo Grigorios della Chiesa ortodossa di Cipro e il Metropolita Ioannis di Thermopyli della Chiesa ortodossa di Grecia, la delegazione di Kalamàta, insieme ai monaci di Kardìtsa e ai professori di Atene e di Tessalonica; Melchìsedek, Vescovo di Pittsburgh, e Alexander, Vescovo di Toledo, della Orthodox Church of America, oltre a padre John Behr, decano dell’Istituto teologico St. Vladimir a New York. Grazie anche a padre Makaryan, rappresentante della Chiesa Apostolica Armena, al Vescovo Jonathan Goodall, rappresentante dell’Arcivescovo di Canterbury, al canonico Hugh Wybrew e a Michel Nseir delegato del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Ringrazio anche i membri del comitato scientifico, alcuni sono miei fratelli, mie sorelle, ma tra loro soprattutto, Michel Van Parys, Antonio Rigo, ed Hervè Legrand che ci offrono sapienza e discernimento. Ringrazio tutti i monaci d’Oriente e d’Occidente che sono qui. Noi monaci sentiamo sempre una comunione molto forte e la nostra vocazione straordinaria ci rende semplicemente poveri cristiani ma con il grande impegno di essere vigilanti e oranti per la Chiesa. Ringrazio gli interpreti e il tecnico di sala signor Panzìca e i suoi collaboratori. Tutti gli amici che fedelmente ritornano e accompagnano con la preghiera questi convegni.
E allora arrivederci all’anno prossimo. Intanto ancora una volta, con buona fedeltà dei miei fratelli e delle mie sorelle, sono usciti gli Atti del XXI Convegno: “Le età della vita spirituale”. Il tema del prossimo convegno lo sceglieremo in un prossimo comitato scientifico e le date le manteniamo, il prossimo anno saranno dal 9 al sabato 12 settembre. Il Signore davvero sia con voi adesso che ritornate alle vostre chiese, e non dimenticate che la nostra comunità vive una continua intercessione per ciascuna delle vostre chiese, d’Oriente e d’Occidente, chiedendo al Signore di affrettare il giorno in cui potremo celebrare un’unica eucarestia. Grazie a tutti. La nostra comunità vi ama e vi accompagna con la preghiera.

Per un'antropologia cristiana della pace

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

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PER UNA ANTROPOLOGIA CRISTIANA DELLA PACE

di Aristotle Papanikolaou

Nelle tradizioni ortodossa e cattolica, un’antropologia della pace è definita, molto semplicemente come théosis, deificazione o, come preferisco dire, quale comunione divino-umana. Tale comprensione della pace come théosis, tuttavia, può essere facilmente fraintesa nel senso di un’acquisizione di poteri fino a considerarsi una sorta di Zeus, poteri che consentirebbero di trascendere e trasformare i dissesti provocati dalla nostra finitezza. Anche tra i cristiani ortodossi la nozione di théosis è spesso applicata al monaco che ha poteri di divinazione o di guarigione, dando ancora una volta l’impressione che l’incarnazione della divina presenza sia manifestata soltanto in alcune condizioni di poteri sovraumani.

Se tuttavia ricordiamo il nome fondamentale di Dio per i cristiani, cioè che Dio è amore – cosa che tutti i cristiani condividono – allora la théosis stessa deve essere vista come capacità di amare come Dio ama, vedendo tutte le creature, anche quelle che sembrano meno amabili, così come Dio le vede. È questa la sfida del più grande comandamento: amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente e amare il prossimo come se stesso (cf. Mt 22,37-39). Quando è compresa nei termini del più grande comandamento, la théosis diventa più ordinaria, ironicamente più terrena, più evidente nelle banali, quotidiane attività della vita. Il più grande comandamento, comunque, è un paradosso: ci viene comandato di amare quando l’amore stesso non può prendere avvio dalla volontà. Non si può sicuramente volere che qualcuno ami uno che odia, ma soltanto far osservare che non ama come dovrebbe.

Leggi tutto: Per un'antropologia cristiana della paceI grandi spirituali delle tradizioni ortodosse e cattoliche comprendono la natura paradossale di questo comandamento; essi sanno che uno non può semplicemente voler amare come vuole non rubare o non dire menzogne. Nella misura in cui l’amore implica la volontà, l’amore stesso è anche affettivo, cioè coinvolge le nostre emozioni e i nostri desideri. In questo senso l’amore abbraccia la persona umana nella sua interezza, anima e corpo. Ciò che questi grandi spirituali capiscono inoltre è che l’amore è un apprendistato che richiede un esercizio per plasmare le nostre emozioni e i nostri desideri, e in questo modo, accresce la capacità della volontà di amare. L’esercizio comporta che si comprenda ciò che impedisce l’amore, ciò che fa entrare nella via dell’amare come ama Dio.

Uno degli ostacoli sulla via dell’amore identificato dagli spirituali è l’orgoglio. Gli spirituali comprendono bene che, a causa della nostra finitezza, gli esseri umani sono afflitti dal turbamento della paura. Siamo davvero terrorizzati dalla morte, ma questa paura della morte maschera un’altra paura che io credo più fondamentale ed è ciò che fonda il nostro orgoglio, è la paura di non avere una qualche importanza nel mondo. Il metropolita Ioannis Zizioulas esprime questo concetto con maggior eleganza come il desiderio di unicità e singolarità. La nostra paura di non aver importanza nel mondo ci porta ad affermare noi stessi in una modalità “divina”. Ciò che appare come amore di sé, orgoglio, in realtà è una forma di disprezzo di sé che quest’apparente amore di sé cerca di mascherare. E a causa di questo disprezzo di sé come amore di sé, cerchiamo di distruggere o negare chiunque o qualunque cosa minacci la nostra identità, minacci ciò che percepiamo come un aiuto a sentirci importanti. Questo tentativo di distruggere o negare l’altro che minaccia la nostra importanza si realizza nel confronto faccia a faccia con i genitori, i figli, gli amici, ma specialmente con lo straniero e il nemico. Lo vediamo anche a livello di gruppi; gli ortodossi stessi sono ben noti per quest’autoidentificazione negativa contro l’altro, specialmente nei confronti del cosiddetto “occidente”, la cui ultima forma è il tentativo di negare o distruggere il cosiddetto occidente ateo, antireligioso, liberale contrapponendogli i valori tradizionali e conservatori dell’ortodossia. Gli spirituali sanno bene che queste forme di affermazione dell’io, come forme di avversione di sé mascherate come amore di sé, sono radicate in sentimenti di paura, che alla fine conducono alla collera. Il sentimento della collera necessita di un oggetto e l’oggetto della collera di solito non è mai ciò per cui si prova collera; in verità la collera conduce all’oggettivazione, cosa che rende più facile trattare l’altro come un oggetto, non diverso da una pietra, rende facile distruggerlo con il martello di proiezioni arbitrarie. Lo si può vedere specialmente nei social media quando si proiettano in un semplice messaggio ogni sorta di significati che vengono impiegati per giustificare discorsi carichi di odio o di diffamazione o quando i teppisti si sentono autorizzati a far del male a qualcuno, normalmente non si chiedono se si sono comportati rettamente nei loro confronti. La sfida per imparare ad amare è apprendere a coltivare le nostre emozioni, i nostri desideri e, quindi, la nostra volontà in modo tale che avvertiamo di aver minor paura e collera nei confronti dei nostri genitori, figli, fratelli e sorelle, amici e, ancor più provocatoriamente, nei confronti dello straniero e del nemico.

Ci sono, comunque, altre condizioni nella vita che rendono difficile l’amore, che evocano sentimenti di paura e di collera ma non sono necessariamente sollecitati dall’avversione verso di sé come amore di sé. Una di tali condizioni è la violenza. La violenza che si abbatte su di noi o che noi commettiamo manda in frantumi un’antropologia della pace poiché rende difficile l’amore. Vorrei illustrare come la violenza ottiene questo effetto considerando tre particolari casi di violenza, due dei quali si riferiscono alla guerra e uno dei quali si riferisce a situazioni di povertà. Prima però vorrei definire un’antropologia della pace nei termini delle virtù, esaminando il modo in cui Massimo il Confessore comprende la vita spirituale come un apprendistato ad amare. Dopo aver descritto particolari condizioni di violenza, vorrei concludere ricordando come la comprensione che Massimo ha delle virtù può tanto illuminare quanto aiutarci a ricostruire un’antropologia della pace come accresciuta capacità di amare come Dio ama nell’esperienza e attraverso l’esperienza della violenza.

La pace della virtù

Negli scritti di Massimo il Confessore la comunione con Dio, che è una concreta presenza del divino, è simultanea con l’acquisizione della virtù. La virtù è una concreta théosis o deificazione. Come dice Massimo stesso nella sua seconda lettera, che è indirizzata a Giovanni: “E la divina e beata carità, che da queste facoltà e per mezzo di esse [con “esse” indica le virtù] viene creata, unisce a Dio e fa apparire colui che ama Dio”1. Nei suoi scritti ascetici Massimo analizza in particolare un percorso che va dalla manifestazione delle virtù attraverso pratiche ascetiche fino alla manifestazione della virtù delle virtù: l’amore. Per Massimo l’essere umano è creato per imparare ad amare ed è in lotta costante contro ciò che indebolisce la capacità d’amore.

La virtù, per Massimo, non è una costruzione del carattere fine a se stessa; non è uno stato in cui uno esibisce le proprie virtù come distintivi onorifici; non è semplicemente la base per una giusta decisione morale che fa mostra di sé all’interno di un particolare contesto. L’acquisizione delle virtù è la condizione preliminare per attivare l’umana capacità d’amore. Come dice Massimo nei suoi Capitoli sulla carità: “Tutte le virtù collaborano con la mente verso l’ardente amore divino”2. Massimo non si limita alle sole quattro virtù cardinali ma, in accordo con la tradizione patristica orientale, offre un più ampio catalogo delle virtù e dei vizi che corrisponde alle tre parti dell’anima: sensibile, irascibile e razionale. La chiave ermeneutica per la complessa descrizione della relazione tra virtù e vizi nella vita interiore dell’essere umano e nell’agire umano è “progredire nell’amore di Dio”3, che viene misurato in definitiva dal modo in cui ci si relaziona con gli altri, specialmente con quelli verso i quali proviamo ostilità o collera4. Come spiega Massimo: “Chi scorge nel proprio cuore traccia di odio verso qualsiasi uomo, per un qualsiasi errore, è completamente estraneo all’amore di Dio, poiché l’amore di Dio non tollera affatto l’odio per un uomo”5.

Se le virtù sono una concreta deificazione, il presupposto per apprendere la virtù delle virtù, che è l’amore, allora il vizio danneggia la capacità d’amare. Massimo spiega che “scopo della provvidenza divina è unire mediante la retta fede e la carità spirituale quelli che sono stati variamente divisi dal male”6. Scrivendo innanzitutto a monaci, aggiunge che “il male che ti separa dal fratello” include “invidiare o essere invidiato, danneggiare o essere danneggiato, disprezzare o essere disprezzato e i pensieri che nascono dal sospetto”7. Massimo è inoltre accorto nel riconoscere che il vizio produce vizio, cioè che non è semplicemente l’atto del vizio che nuoce alla capacità di amare, ma è “l’essere stretto dalla morsa del vizio”. “Le cose che mettono fine alla carità sono queste: ad esempio disonore, danno, calunnia o riguardo alla fede o riguardo ai costumi; percosse, ferite o simili, e ciò sia che capiti a te sia a qualcuno dei tuoi parenti o amici”8. I vizi producono e sono tali emozioni affettive quali la collera, l’odio, la paura. Attraverso i suoi scritti, Massimo sta cercando sia di dare consigli sia di esortare a una forma di addestramento che può superare ciò che sono, in definitiva, emozioni corrosive, comunque giustificate.

È significativa anche l’analisi di Massimo riguardo al rapporto delle immagini con la coltura dei vizi e delle virtù. Secondo Massimo, ciò che spesso suscita e sviluppa un vizio sono immagini o pensieri che si presentano all’essere umano. Massimo spiega che “carità e padronanza di sé conservano la mente immune da passione rispetto alle cose e alle loro idee … tutta la lotta del monaco contro i demoni è per allontanare le passioni dalle idee”9. Massimo ammonisce anche: “Quando ricevi violenza da parte di qualcuno o sei oltraggiato in qualche cosa, allora guardati dai pensieri dell’ira, perché questi, separandoti dalla carità con la tristezza, non ti pongano nella regione dell’odio”10. In relazione alle immagini che suscitano il vizio, questa resistenza non consiste nel rimuovere l’immagine, ma nel disattivare il suo potere di evocare tali sentimenti di collera o di ostilità. Essere virtuoso è sperimentare dinanzi alle immagini emozioni e desideri che coltivano relazioni autentiche.

Nella misura in cui la virtù è connessa all’amore, le virtù costruiscono relazioni di intimità, fiducia, compassione, empatia, amicizia, condivisione, premura, umiltà e onestà; cose tutte quello che sono apparentemente minacciate dall’esperienza del vizio che distrugge le relazioni. Secondo Massimo, l’acquisizione delle virtù è un apprendimento che si realizza in e attraverso determinate pratiche che formano sia il corpo sia la vita interiore (l’anima) dell’essere umano; la virtù è una struttura dell’io quale apertura all’amore.

La disgregazione della violenza

Nella prossima parte della mia esposizione, vorrei suggerire che la comprensione di Massimo della virtù è particolarmente importante per illuminare l’esperienza umana della violenza concentrandomi sull’esperienza della guerra e della povertà.

Oggi negli USA è molto usuale ascoltare storie di guerra di soldati che sono stati in Vietnam, in Afganistan o in Iraq e che soffrono a causa di Disordini da stress post-traumatico. È preoccupante sentire storie di guerra di reduci; raccontano che non possono dormire con le loro mogli per paura che un incubo possa portarli a ferire fisicamente la moglie; che non sono in grado di dormire durante la notte a causa di un eccesso di vigilanza; che non sono in grado di stare all’aperto per timore che un rumore, quello di un uccello che canta o dell’acqua che scorre, possa scatenare modalità di guerra; di non essere capaci di entrare in spazi pubblici, come supermercati o ascensori; di avere sogni di mutilare i figli di qualcuno, di alienarsi amici e famiglie, di non essere in grado di mantenere un lavoro o anche di perdere il lavoro per timore degli spazi pubblici. Molti di loro finiscono per diventare barboni sulle strade americane – il 13% dei barboni negli USA sono reduci di guerra e il 20% della popolazione maschile di barboni è costituita da reduci di guerra. Sono tormentati da immagini demoniache e ricordi della guerra. L’alto indice di esperienza di sintomi di Disturbi post-traumatici da stress (PTDS) tra i reduci del Vietnam dimostra che gli effetti della guerra permangono nel corpo a lungo dopo una missione di guerra. Secondo Jonathan Shay, uno dei pionieri negli USA nel trattare i reduci di guerra sofferenti di Disturbo post-traumatico da stress (PTSD), il perdurare di tale stato avviene nella forma di: un atteggiamento ostile o diffidente dinanzi al mondo; ritiro dalla società; sentimenti di vuoto o di disperazione; sentimento cronico di essere “al margine” come se si fosse costantemente minacciati; estraniamento11. Ci sono molte, molte storie e statistiche che potrei citare a questo proposito, ma mi limiterò alla storia raccontata al radioprogramma “This American Life” concernente la vicenda del reduce John che stava litigando con la sua fidanzata a proposito dell’orario degli autobus. La discussione si accese a tal punto che John andò in colera ed entrò in quello che, in ambito clinico, viene chiamato “stato di follia”12. John prese un coltello e colpì più volte la sua fidanzata. Quando si risvegliò in ospedale, non riusciva a ricordare quello che aveva fatto e la prima cosa che chiese fu: “Ho ucciso mia figlia?” Non aveva ucciso sua figlia13. Questa storia e molte altre simili a questa rivelano che c’è un’ascesi alla guerra: sia attraverso l’addestramento ricevuto nell’esercito sia attraverso gli atteggiamenti assunti durante la guerra per esercitare il corpo alla sopravvivenza dinanzi a costanti minacce di violenza, la guerra è l’annientamento della virtù nel senso che ha un impatto negativo sulla capacità di un reduce di guerra di riprendere i rapporti con la famiglia, gli amici e gli estranei14.Oltre al Disturbo post traumatico da stress (PTSD), sta emergendo una nuova categoria al fine di distinguere una determinata condizione che è il risultato della partecipazione dei veterani alla guerra e che non è più considerata identica al Disturbo post traumatico da stress (PTSD), anche se molti sintomi sono simili. Questa condizione è detta “ferita morale” e si distingue dal Disturbo post traumatico da stress (PTSD) nel senso che non è prodotta da una reazione di paura15. “La ferita morale” si riferisce a una condizione nella quale il reduce di guerra sperimenta la sensazione profonda che siano state violate le sue credenze morali fondamentali. Può derivare dall’aver ucciso persone armate o disarmate, dall’aver torturato prigionieri, abusato di corpi morti o di non essere riusciti a prevenire azioni del genere; può manifestarsi, anche se in realtà i reduci di guerra non avevano la possibilità di evitare simili azioni. Nell’esperienza della ferita morale i reduci di guerra possono giudicare se stessi indegni, incapaci di vivere con un’azione che essi o esse hanno compiuto e che non è mai un’azione che si può cancellare. I sintomi sono simili a quelli del Disturbo post traumatico da stress (PTSD): isolamento, sfiducia negli altri, depressione, dipendenza, distacco emotivo e valutazione negativa di se stessi. Ho sentito innumerevoli storie di reduci di guerra che ammettono di aver paura a parlare di tutto quello che hanno fatto in situazioni di combattimento per timore che la persona a cui ne parlano li giudichi o le giudichi indegni d’amore. In un recente articolo del The New Yorker intitolato “Il ritorno”, si citano le parole di un reduce dalla guerra in Iraq:

Non voglio raccontarle sconcezze [si riferisce alla moglie]… Non voglio che sappia che suo marito, la persona che ha sposato, ha gli incubi per aver ucciso della gente. Mi fa sentire un mostro … Finirà per odiarmi … Quale razza di persona ha sogni come questi?16.

Massimo dice spesso che l’amore di sé è il più grande ostacolo sul cammino dell’apprendimento dell’amore. Nel caso della ferita morale, l’ostacolo non è tanto l’amore di sé quanto il disprezzo di sé privato di ogni maschera d’orgoglio.

Gli effetti della violenza sull’essere umano sono anche chiaramente visibili nei quartieri poveri delle grandi città degli USA (e immagino che sia così in tutto il mondo), dove la minaccia della violenza è costante. Un adolescente che viveva in un quartiere povero di Chicago, infestato da bande violente, lo descriveva come una zona quotidiana di guerra17. A questo proposito, una delle più difficili questioni che devono affrontare gli educatori negli USA riguarda il modo con cui educare i bambini nei quartieri più poveri che regolarmente si comportano peggio a confronto dei bambini nei quartieri della classe media o benestante.

Tanto per fare un esempio, Paul Tough ha recentemente edito il libro How Children Succeed: Grit, Curiosity, and the Hidden Power of Character (Come i bambini hanno successo: coraggio, curiosità e il misterioso potere del carattere), nel quale riporta modi di affrontare questo problema che si focalizzano sul carattere, come il recente lavoro e gli studi dell’economista James Heckman, che ha ricevuto il premio Nobel; questi ha recentemente pubblicato The Myth of Achievement Tests: The GED [General Education Development] and the Role of Character in American Life18 (Il mito del risultato del test: il GED [Sviluppo dell’educazione generale] e il ruolo del carattere nella vita americana). Tough descrive come gli educatori per decenni si sono focalizzati a improvvisare quelle che venivano chiamate “abilità cognitive”, che hanno a che fare con cose quali la lettura e la matematica. Vi sono studi che hanno mostrato che le abilità correlate al successo, come diplomi di college o un lavoro ben retribuito, corrispondono a quelle che sono chiamate “abilità non-cognitive”19. È lo sviluppo di abilità non-cognitive che consente lo sviluppo di abilità cognitive. Secondo James Heckman, i tipi di abilità cognitive e di carattere che sono “cruciali per il successo nella vita economica e sociale … includono perseveranza (coraggio) … fiducia, attenzione, autostima ed efficienza, resistenza agli eventi avversi, apertura all’esperienza, empatia, umiltà, tolleranza di opinioni diverse e l’abilità di impegnarsi attivamente nella società”20. Heckman elenca anche l’autocontrollo, che include controllo degli impulsi, gestione della collera, accettazione del ritardo della gratificazione, o riflessione prima di attuare una cattiva decisione – cose che Robert Merrihew Adams chiama le virtù strutturali21 e che ci ricordano la lista delle virtù di Massimo il Confessore.

Ciò che essi hanno ancora scoperto è che lo stress risalente a esperienze avverse durante l’infanzia, come ad esempio l’esperienza della violenza o la minaccia della violenza, possono prevenire il pieno sviluppo di abilità non-cognitive. Tough riporta dati che indicano che il 51% dei bambini che hanno sperimentato quattro o più eventi avversi risultano avere problemi di apprendimento o di comportamento22. Un trauma, in particolare, può interferire con un sano sviluppo del cervello, con la capacità di prendere decisioni, con la memoria e il tipo di pensiero consequenziale, necessario per risolvere problemi23. Se un bambino sta sperimentando la costante minaccia della violenza a casa propria, lo stress che tale minaccia genera può impedire lo sviluppo di una parte del cervello responsabile di abilità non-cognitive. Un altro modo in cui tale stress veniva spiegato è questo: se, in una foresta, ci si trova di fronte a un orso, la parte del cervello responsabile dell’aggressione si attiverà, e quella parte del cervello responsabile di abilità non-cognitive si disattiverà allo scopo di predisporre la persona alla risposta a uno stato di emergenza. A mio avviso, questo getta una nuova luce sul racconto dell’episodio in cui Serafino di Sarov mangia con gli orsi nella foresta, ma una simile risposta a uno stato di emergenza, in ogni modo, è destinata a essere rara. Per alcuni bambini che vivono in una situazione familiare nella quale la minaccia di violenza è costante, il cervello risponde come se il bambino si trovasse quotidianamente dinanzi a un orso. Se la risposta a uno stato di emergenza del cervello viene attivata ripetutamente, il cervello inaugura vie che progressivamente diventano radicate. Nelle situazioni quotidiane questo significa che è difficile per questi bambini imparare la lettura e la matematica in classe quando il cervello si trova costantemente in una modalità di risposta a uno stato di emergenza. Non è inusuale che tali bambini abbiano a scuola problemi di comportamento che spesso si manifestano in accessi di collera. Janine Hron, che è l’amministratore delegato del Crittenton Children’s Center (Centro per i bambini Crittenton), che ha sviluppato l’Head Start Trauma Smart (Sofferenza traumatica a partire dalla testa ?) negli USA, amplia questo punto:

Bambini che vivono eventi cronici avversi significativi diventano ipervigilanti … Le loro emozioni li sommergono. Hanno difficoltà a dormire, difficoltà a stare attenti in classe, sono iperattivi e finiscono per essere gettati fuori dalla scuola. Il numero di persone che stanno sperimentando questi traumi è realmente epidemico24.

Essere circondati dalla violenza o sperimentarla direttamente può effettivamente plasmare il cervello in modo tale da creare vizi di paura e di collera (ancora una volta, non necessariamente segno di amore di sé, ma piuttosto di disprezzo di sé), due dei vizi che Massimo dice fanno giungere alla via dell’amore. Questi vizi, tra gli altri, vanno pregiudicando l’abilità di stare in quel genere di relazione che non dovrebbe semplicemente permettere all’amore di esistere, ma il genere di relazione che dovrebbe permettere di apprenderlo. Ciò che è realmente straordinario in tutto questo, almeno per me, è il nesso tra quello che tutti questi studi stanno mostrando con tutto quello che Massimo dice a proposito dell’interrelazione tra la manifestazione delle virtù e ciò che considera (?) come contemplazione.

Verso un’antropologia della pace

Se seguiamo Massimo il Confessore, allora l’antropologia della pace è un’antropologia che afferma la capacità umana di comunione con Dio. Il movimento verso tale comunione con Dio – la théosis – è identico all’umano apprendimento dell’amore, a vedere l’altro come Dio lo vede, perfino lo straniero e il nemico. L’imparare come amare avviene attraverso l’acquisizione delle virtù che vengono manifestate attraverso pratiche ascetiche. Si potrebbe certamente affermare che le violente disgregazioni che avvengono nel corso della storia umana sono radicate nelle disgregazioni dell’essere umano provocate in modo particolare dai vizi della paura, della collera e dell’odio. Tali paura e collera sono spesso il risultato della violenza provocata da ciascuno, inflitta da qualcuno o afflitta a qualcuno o a qualche gruppo dal quale ci si sente aggrediti. Tanti sono posseduti dalla paura fin dalla nascita, sono in collera con qualcuno e odiano qualcun altro che, a un certo punto della storia, è stato la fonte di qualche forma di violenza. In un circolo vizioso di paura, collera e odio, l’identità si radica e si rafforza contro quelli che sono stati causa di violenza per il proprio popolo. Un esempio tra tanti altri: sono passati almeno ottocento anni dalla quarta crociata e non è raro che un ortodosso covi ancora odio per questa storia.

La descrizione dell’antropologia della pace di Massimo in termini di virtù illumina come la violenza può provocare, come Jonathan Shay afferma, una “perdita di carattere” nel senso di rendere difficile l’amore. Diventa difficile di fronte al nemico che ha fatto violenza a una persona o un popolo, ma diventa difficile per il soldato che sta sperimentando un Disturbo post traumatico da stress (PTSD) o un’offesa morale, o per quello che vive in povertà che si trova costantemente di fronte alla minaccia della violenza o la sperimenta di continuo; nella misura in cui tali esperienze di violenza nella guerra e nella povertà rendono difficili le relazioni. Il soldato evita il ristorante e il bar; il povero inveisce contro la famiglia, gli amici e gli insegnanti.

Sebbene la descrizione delle virtù di Massimo possa illuminare gli effetti della violenza sull’essere umano in quanto reprime la loro capacità di amare, e perciò di théosis, può sembrare che le pratiche ascetiche che Massimo raccomanda possano aver poco da offrire per far fronte a tale violenza. Cosa che non sarebbe corretta.

Per esempio, in risposta al problema degli effetti della violenza sull’apprendimento, il programma dell’Head Start Trauma Smart ha degli studenti impegnati in pratiche quali esercizi di respirazione per aiutare a controllare la collera e rendere capaci di imparare, creando perfino delle “stelle di respirazione” [strumento per insegnare ai bambini la respirazione profonda per aiutarli a rilassarsi], mostrando che i metodi di disciplina tradizionali basati sulla paura, sulle punizioni fisiche, sono inefficaci. Il programma si dedica anche a formare la comunità che attornia bambini che vivono esperienze avverse, come le guide degli autobus e i camerieri dei caffè, per sviluppare una rete di risposte appropriate per il bambino; in altre parole l’esercizio nella virtù si spinge al di là del bambino, concentrandosi in special modo sulla perspicacia. Ricorrendo al sistema di Achenbach come strumento standard di valutazione, l’Heard Start Trauma Outcome Report indica che un bambino che è sottoposto a terapia mostra un miglioramento delle reazioni emotive, dell’ansietà, dei disturbi somatici, del ritiro, della privazione di sonno, della vigilanza sull’aggressività, dello stress e del comportamento provocatorio di opposizione25.

Ciò che è interessante negli studi citati nel libro di Paul Tough è che viene mostrato come un corretto attaccamento al genitore o ai genitori può aiutare il bambino a reggere lo stress generato da situazioni avverse26. In altre parole, lo sviluppo di relazioni corrette grazie alle virtù può reagire ai vizi creati dall’esperienza o dalla minaccia della violenza. Ciò che più da speranza è che queste abilità non cognitive possono essere apprese anche da adulti; in altre parole, l’essere umano è stato creato in modo tale che queste abilità non cognitive possono essere apprese a qualunque età.

Anche se vi erano numerose pratiche che permettevano l’acquisizione della virtù e perciò la capacità di relazioni di fiducia, intimità, profondità e amore, mi limiterò a un fatto che è una chiave per ogni ripristino della virtù sia nella letteratura psicologica sia in quella ascetico-mistica: la pratica del narrare la verità o della confessione. Tanto Jonathan Shay quanto Judith Herman, nella loro esperienza con le vittime del trauma, testimoniano la fondamentale verità che la guarigione non può avvenire prima che la vittima del trauma possa cominciare a parlare degli eventi traumatici. Raccontare la verità per se stessa non è sufficiente per la guarigione, ma è assolutamente necessario. Così la narrazione della verità del trauma non può cominciare prima che per la vittima sia stato costruito un ambiente sicuro e protetto, cosa che Herman definisce come fase di recupero27. Dire la verità riguardo al trauma della guerra può essere interpretato come una concretizzazione della virtù dell’umiltà, nel senso che rendersi vulnerabile è un requisito per aprirsi all’amore e all’essere amati. Il monaco cristiano del vi secolo, Doroteo di Gaza, paragona la vita cristiana alla costruzione di una casa:

Il tetto è l’amore, che è il compimento delle virtù così come il tetto lo è della casa. Poi, dopo il tetto, vi è il parapetto della terrazza ... Il parapetto è l’umiltà, perché corona e custodisce tutte le virtù. E come ogni virtù deve essere accompagnata dall’umiltà – come abbiamo detto che ogni pietra deve poggiare sul fango – così anche la perfezione della virtù ha bisogno dell’umiltà28.

La ricostruzione della narrazione deve avvenire in un contesto in cui vi siano altre persone, in una forma di comunità. Shay afferma che

guarire da un trauma dipende dalla condivisione del trauma: essere capaci di raccontare al sicuro la storia a qualcuno che ascolta e di cui ci si può fidare che la riferirà fedelmente agli altri nella comunità”29.

Riuscire a mitigare il potere demoniaco dipende dalla verità, anche se tale verità ha a che fare con l’esperienza del demoniaco, e questa verità ha bisogno di essere “condivisa”, detta e ascoltata da altri. Nel corso degli anni, Shay ha riscoperto che tale condivisione è più efficace quando la comunità stessa è costituita da quanti conoscono, direttamente o indirettamente, gli effetti del trauma della lotta. Più o meno come avviene tra gli alcolisti anonimi, il potere di guarigione della narrazione della verità non dipende semplicemente dal dire la verità, ma da chi l’ascolta30. L’effetto di rimbalzo della narrazione della verità dipende dal significato simbolico-iconico del fatto che qualcuno ascolta. Voglio dire chiaramente che quando raccomando la pratica ascetica della narrazione della verità, non sto presentando una ricetta: “dire la verità ed essere guarito”. La parola di verità detta in Gesù rende possibile una nuova relazione di intimità tra l’increato e il creato, la pratica ascetica della narrazione della verità ha il potere di formare un nuova via di relazioni di intimità e di fiducia anche per quelli che hanno sperimentato la violenza e la sofferenza da Disturbo postraumatico da stress (PTSD).

La narrazione della verità sarà particolarmente importante per elaborare il perdono che è esso stesso una manifestazione della virtù dell’amore, ma al cuore dell’offesa e attraverso l’offesa o il peccato, che spesso assumono la forma della violenza. È stato mostrato che per queste sofferenze dovute a offesa morale, parlarne o mettere a nudo ciò che affligge l’uno o l’altra, benché necessario, non è efficace allo stesso modo in cui può essere per quelli che soffrono di Disturbo post-traumatico da stress (PTSD). È chiaro che quelli che sono afflitti dalla disgregazione dell’offesa morale sono tentati in qualche forma di auto-perdonarsi.

Nel caso dell’offesa morale, e in molti altri esempi di violenza e di malvagità, il perdono si rivela non come un contratto – confesso semplicemente il mio peccato e Dio è obbligato a perdonare; questo non può essere preteso, né è oblio del male o della violenza. Perdonare è una condizione in cui si risponde diversamente al ricordo del peccato o della violenza. Non si può voler perdonare; si diventa perdono e questo diventare perdono si traduce in una relazione che non dimentica, nega o anche va al di là del male che c’è stato, ma una relazione che persiste al cuore del male e come effetto di tale male. Più ancora il perdono porta a un’intimità nella e attraverso la violenza o il peccato commesso, che normalmente sarebbe considerata impensabile.

L’amore che appare dopo l’esperienza della violenza, non lascia alle spalle questa violenza. Nel ricostruire ciò che della virtù è stato distrutto a causa della violenza, l’imparare ad amare da parte dell’essere umano non significa dimenticare o cancellare la violenza sperimentata; non significa neppure andare al di là dell’esperienza della violenza; è sempre un muoversi dentro e con l’esperienza della violenza, specialmente dal momento in cui qualsiasi forma assuma l’amore, avrà qualcosa a che fare con la violenza sperimentata. Come afferma in modo così eloquente la teologa anglicana Marylin McCord Adams: “Per superare la partecipazione all’orrore dentro alla vita della persona creata, Dio deve introdurla dentro la costruzione di quell’intima, individuale … beatifica personale relazione con Dio”31.

La speranza cristiana che sto illustrando afferma che la disgregazione attuata dalla violenza non rende impossibile l’amore, per quanto qualunque specie di amore non possa cancellare quello che è stato fatto. La violenza affermata come parte della narrazione propria di qualcuno è per sempre costitutiva di tale narrazione, anche se la tale narrazione non può essere ridotta a quell’esperienza di violenza. Il male o la violenza non sono necessari per amare, ma l’amore non è necessariamente una negazione dell’esperienza del male o della violenza. Si muove dentro, attraverso e con tali esperienze contrarie come se non permettesse alle nostre storie individuali e alla storia della creazione di essere ridotte a tali esperienze. Amore come perdono non si riferisce a una frontiera “al di là” di esperienze contrarie, come la violenza, ma a “un di più” in un certo senso costituito da tali esperienze ma non riducibile ad esse. Questo punto è importante di fronte a quelli che potrebbero sostenere che, alla luce del fatto che perdita e, quindi, lutto sono costitutivi dell’io, della nostra identità, che non c’è e non può esserci una cosa come l’amore. Un’antropologia della pace come amore, come perdono, come virtù è un duro lavoro; l’amore lo si impara, ma per il cristiano deve essere un apprendimento guidato dalla speranza che “né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né potenze, né altezza né profondità, né alcun altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,38-39).

1 Massimo il Confessore, Lettera sulla carità, a cura di L. Cremaschi, Magnano 1994, p. 15.

2 Id., Capitoli sulla carità 1,11, a cura di A. Ceresa Gastaldo, Roma 1963, p. 53.

3  Ibid. 2,14, p. 97.

4  Ibid. 1,71, p. 77.

5 Ibid., 1,15, 55.

6 Ibid. 4,18, p. 201.

7  Ibid. 4,19.21, pp. 201-203.

8 Ibid. 4,81, p. 231.

9 Ibid. 3,39.41, p. 163.

10 Ibid. 1,29, p. 59.

11 Cf. J. Shay, Achilles in Vietnam: Combat Trauma and the Undoing of Character, New York 1994, p. 169. Si veda anche: Id., Odysseus in America: Combat Trauma and the Trials of Homecoming, New York 2002. Sul trauma si veda anche il saggio classico di J. Herman, Trauma and Recovery: The Aftermath of Violence from Domestic Abuse to Political Terror, New York 1992.

12 Per una definizione dello “stato di follia” si veda J. Shay, Achilles in Vietnam, p. 80. In una brillante analisi dell’Iliade, Shay dimostra come Achille divenne pazzo furioso dopo la morte del suo amico Patroclo.

13 http://www.thisamericanlife.org/radio-archives/episode/59/life-after-death.

14 Per l’ascesi di guerra si veda: Lt. Col. D. Grossman, On Killing: The Psychological Cost of Learning to Kill in War and Society, New York; R. M. MacNair, Perpetration-Induced Traumatic Stress: The Psychological Consequences of Killing, Westport, CT 2002.

15 Sulla “ferita morale” si veda B. T. Litz et al., “Moral Injury and Moral Repair in War Veterans: A Preliminary Model and Intervention Strategy”, in Clinical Psychology Review 29 (2009), pp. 695-706; S. Maguen et al., “The Impact of Reported Direct and Indirect Killing on Mental Health Symptoms in Iraq War Veterans”, in Journal of Traumatic Stress 23 (2010), pp. 86-90; S. Maguen et al., “Killing in Combat, Mental Health Symptoms, and Suicidal Ideation in Iraq War Veterans”, in Journal of Anxiety Disorders 5 (2011), pp. 563-567; K. Drescher et al., “An Exploration of the Viability and Usefulness of the Construct of Moral Injury in War Veterans”, in Traumatology 17/1 (2011), pp. 8-13. Per considerazioni teologiche si veda W. Kinghorn, “Combat Trauma and Moral Fragmentation: A Theological Account of Moral Injury”, in Journal of the Society of Christian Ethics 32/2 (2012), pp. 57-74; R. Nakashima Brock e G. Lettini, Soul Repair: Recovering from Moral Injury after War, Boston 2012.

16 D. Finkel, “The Return: The traumatized veterans of Iraq and Afghanistan”, in The New Yorker, 9 settembre 2013, p. 36.

17 Cf. L. Jones e L. Newman, Our America: Life and Death on the South Side of Chicago, New York 1998, p. 170.

18 Cf. The Myth of Achievement Tests: The GED and the Role of Character in American Life, a cura di J. J. Heckman, J. E. Humphries e T. Kautz, Chicago 2014.

19 Ibid., p. 341. Si veda anche: P. Tough, How Children Succeed: Grit, Curiosity, and the Hidden Power of Character, New York 2012, XIX, pp. 148-175.

20 Ibid., p. 342.

21 R. Merrihew Adams, A Theory of Virtue: Excellence in Being for the Good, Oxford 2006, p. 37.

22 Cf. P. Tough, How Children Succeed, pp. 1-48, specialmente p. 17. Si veda anche N. J. Burke et al., “The Impact of Adverse Childhood Experiences on an Urban Pediatric Population”, in Child Abuse and Neglect 35/6 (June 2011), pp. 408-413. Cf. anche “The Adverse Childhood Experiences Study”, www.acestudy.org, ultimo accesso 15 maggio 2014.

23 Cf. P. Tough, “Teaching Children to Calm Themselves”, in The New York Times, 20 March 2014.

24 Ibid. Si veda anche S. P. Walker et al., “Inequality in early childhood: risk and protective factors for eatrly child development”, in The Lancet 378 (9799), pp. 1325-1338, specialmente . 1331 e S. P. Walker et al., “Child development: risk factors for adverse outcomes in developing countries”, in The Lancet 369 (9556), pp. 145-157, specialmente p. 152.

25 Ibid. Per i dati completi si veda l’Head Start Trauma Report 2013 http://www.saintlukeshealthsystem.org/head-start-trauma-smart (ultimo accesso 7 aprile 2014.

26 Cf. P. Tough, How Children succeed, pp. 31-48.

27 Cf. J. Shay, Odysseus in America, p. 168. Shay sta prendendo le distanze da Herman, Trauma and Recovery, New York 1992.

28 Doroteo di Gaza, Insegnamenti 14,151, in Id., Comunione con Dio e con gli uomini, a cura di L. Cremaschi, Magnano 2015, p. In precedenza Doroteo identifica l’umiltà al fango della casa dell’anima. “Il fango è l’umiltà perché viene dalla terra ed è sotto i piedi di tutti. Ogni virtù senza umiltà non è una virtù” (Ibid.).

29 Ibid., p. 4.

30 Sulla narrazione della verità negli alcolisti anonimi si veda A. Papanikolau, “Liberating eros: Confession and Desire”.

31 M. McCord Adams, Christ and the Horrors, Cambridge 2006, p. 47.