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Tre arpe, beatitudine della chiesa

Leggi tutto: Tre arpe, beatitudine della chiesaNel giorno dell’Epifania il vangelo conferma e rilancia la grande promessa di Dio ad Abramo, che lo zelo del Signore compirà: “In te si diranno benedette tutte le genti della terra” (Gen 12,3).

Nella venuta dei magi inizia a risplendere l’adempimento del mistero nascosto nei secoli nella mente di Dio. Da sempre il Signore vuole che tutti gli umani siano salvati, arrivando a conoscerlo, e con loro tutte le creature: cioè la salvezza che Dio ha preparato è coestensiva alla creazione. Dio ha creato solo ciò che ha amato: ciò che non avesse amato, non l’avrebbe neppure creato, come dice il libro della Sapienza. Tutto è stato creato nel Verbo, e tutto sarà ricapitolato, re-intestato nel Verbo, cioè è abitato dal Verbo già ora. In vista di questa salvezza Dio ha eletto Abramo, Israele e la chiesa. Anche l’elezione e la vocazione del servo del Signore sono per le moltitudini. Non c’è salvezza che non sia salvezza per tutti. Mentre attendiamo che tutte le genti si dicano benedette nel Signore Gesù, e che Israele si rallegri, si possa rallegrare di riconoscerle benedette nel suo Messia, noi, chiesa dalle genti, possiamo forse leggere in questa pagina quel mandato che Efrem il Siro chiamava la beatitudine della chiesa, cioè far risuonare le tre arpe gloriose: le Scritture sante di Israele, il vangelo e la creazione …

La terza arpa è la creazione. Una meravigliosa stella, prodigiosa come tutte le stelle, ha saputo indicare, brillando di gioia, colui che l’aveva creata (cf. Bar 3,35). I magi hanno saputo scrutare con enorme sapienza amorosa il cielo stellato, e hanno saputo ascoltare da lui un racconto del Creatore fino a giungere a Gerusalemme. Per crescere nella conoscenza del Signore dobbiamo imparare dalle genti tutte, dalla loro obbedienza alla creazione, a decifrare quel canto che le creature, per amore di Dio, sanno fare. La rivelazione non spegne affatto né rende superfluo questo canto, anzi: fu grandissima la gioia dei magi nel rivedere la stella, dopo aver ricevuto l’annuncio delle Scritture. Gesù, che qui è cercato grazie a una stella, saprà scrutare sia le Scritture che la creazione, alla quale sapeva di appartenere, e saprà leggere la promessa della resurrezione sia nella pagina del roveto ardente sia nel chicco di grano caduto a terra…

 

Vai al libro: Maria dell’Orto, La follia del vangelo

Vivere altrimenti

Chi siamo noi monaci? Siamo quelli che comprendono le cose, la realtà, il mondo altrimenti. E siccome comprendiamo altrimenti, viviamo anche altrimenti …

Noi monaci siamo là e non abbiamo uno scopo, se non quello di tentare di vivere l’evangelo. Non abbiamo nessuna funzione particolare nella chiesa; altri sono nella chiesa per fare qualcosa: i vescovi e i presbiteri per governare il popolo di Dio, i frati per predicare, le suore per aiutare i poveri e i malati… I monaci sono senza un’opera specifica, non hanno nulla da fare in particolare, nessuna meta, nessun traguardo nella loro vita. Non si fa carriera nella vita monastica, non ci sono promozioni: si resta sempre fratelli e sorelle, poveri laici. “Noi siamo semplici laici senza importanza”, come diceva Orsiesi, discepolo di Pacomio, al vescovo Teofilo di Alessandria.

Quanto all’amore, anche qui c’è un altrimenti. Mentre nella vita normalmente prima si conosce qualcuno e poi lo si ama, i monaci decidono di amare l’altro prima di conoscerlo: l’altro è l’ospite, è il viandante, è colui che chiede di entrare in comunità. Quest’accoglienza universale è possibile anche perché sono celibi. Vivere il celibato dà inoltre ai monaci una libertà e una possibilità ulteriore e diversa di interiorizzazione, di pensiero, di solitudine e di silenzio: tutti strumenti per fare una vita monastica che è ricerca di Dio (cf. Regola di Benedetto 58,7) e, insieme, ricerca dell’uomo (cf. Regola di Benedetto, Prologo 15).

Ogni monaco rinuncia a possedere in proprio qualsiasi cosa. Tutti i beni sono comuni e tra i monaci non circola denaro … Lavorano tutti, per guadagnarsi da vivere e non dipendere da nessuno: tra di loro c’è chi guadagna poco e chi guadagna molto, ma questa differenza non significa nulla nelle relazioni perché tutto è messo in comune, senza che chi guadagna possa trattenere qualcosa per sé. Inoltre tutti, intellettuali e no, fanno lavori manuali: cucinare, lavare i piatti, pulire le case, fare lavori nel bosco o nell’orto. È in queste relazioni, in queste condizioni diverse e diseguali che i monaci tendono all’uguaglianza e alla fraternità, cercando sempre di vivere il primato del comandamento nuovo. Così facendo, giorno dopo giorno imparano ad amare, si esercitano nell’amore, si sentono un corpo, gli uni membra degli altri (cf. Rm 12,5; 1Cor 12,20; Ef 4,25) …

I monaci amano la notte e vivono la notte prima del giorno. Alla sera presto (verso le 20) entrano in cella e vanno a riposare, ma al mattino (tra le 2,30 e le 4,30, a seconda dei monasteri) si svegliano anticipando la luce del giorno e vegliano. Vegliare è la lampada della vita monastica. Non ci si alza presto per fare penitenza, ma per vivere la notte, quel tempo benedetto in cui si è soli, c’è assoluto silenzio e si può ascoltare Dio che parla al cuore. Di giorno il monaco incontra i fratelli, gli ospiti, gli uomini; di giorno il monaco lavora e prega con gli altri fratelli; ma tutto questo avviene dopo alcune ore passate a vegliare nella notte in attesa del giorno.

Questi elementi che costituiscono l’altrimenti della vita monastica convergono in un’istanza centrale, che li riassume e li ri-significa: i monaci vogliono essere una memoria della communitas, un antidoto alle forze centrifughe, disgreganti, individualistiche. Tutto è per loro comune, e la stessa personalità del singolo non deve diventare singolarità contro gli altri o senza gli altri.

Enzo Bianchi, Nella libertà e per amore

Nella bontà e nella mitezza

Leggi tutto: Nella bontà e nella mitezzaColui che è veramente Signore e creatore di ogni cosa, l'invisibile Dio, egli stesso mandò dai cieli la verità e la parola santa e incomprensibile agli uomini e la stabilì saldamente nei loro cuori; e non mandò, come alcuni potrebbero immaginare, un servitore, un angelo, un arconte, uno di coloro che reggono le realtà terrestri o di coloro ai quali è affidato il governo delle realtà celesti, ma lo stesso autore e creatore dell'universo, per mezzo del quale creò i cieli e racchiuse il mare entro i suoi confini ... è lui che Dio ha inviato agli uomini. Forse, come qualcuno potrebbe pensare, [fece questo] per imporre tirannia, paura, spavento? No di certo! Lo ha inviato, invece, nella bontà e nella mitezza, come un re che invia suo figlio re; lo ha inviato come Dio; lo ha inviato come uomo agli uomini; lo ha inviato per salvare, per convincere e non per costringere; la costrizione non si addice a Dio. Lo ha inviato per chiamare, non per accusare; lo ha inviato per amare, non per giudicare (cf. Gv 3,16-17) ...

Nessun uomo ha visto o ha conosciuto [Dio] (cf. Gv 1,18; 1Gv 4,12), ma egli stesso si è manifestato. E si è manifestato attraverso la fede, alla quale soltanto è consentito vedere Dio. Dio infatti, il padrone e il creatore di tutte le cose, colui che le ha fatte tutte e le ha disposte secondo un ordine, non solo si è mostrato pieno di amore per gli uomini, ma anche longanime. Sempre fu, è e sarà tale: benevolo, buono, senza ira e veritiero, il solo buono.

Avendo concepito un progetto grande e inesprimibile, lo comunicò soltanto al Figlio. Finché dunque conservava e custodiva nel mistero il suo sapiente proposito, sembrava non interessarsi di noi e non preoccuparsene. Ma quando lo ebbe rivelato attraverso il suo Figlio amato ed ebbe manifestato ciò che fin da principio era stato preparato (cf. Rm 16,25-26; Ef 3,4-12), ci offrì un tempo per ogni cosa: l'essere partecipi dei suoi doni, il vedere e il comprendere. Chi mai di noi se lo sarebbe aspettato?

(A Diogneto)

Vai al libro: Nuove letture dei giorni

Visitazione

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Cristo nel vangelo dice: Giovanni era una lucerna che arde e splende (Gv 5,35). Giovanni era come una lucerna sotto il moggio mentre era ancora racchiuso nell’utero di sua madre, ardeva del desiderio del suo Signore veniente ed esultava di pazza gioia all’incontro con lui (cf. Lc 1,44). Ma la lucerna che allora era sotto il moggio doveva essere posta sopra il candelabro, perché facesse luce a tutti coloro che erano nella casa (cf. Mt 5,15); ed essa, che prima illuminava solo il moggio, avrebbe irradiato su tutto il mondo nuovi fulgori. Non illuminava forse il suo moggio colui che, mediante lo Spirito santo, rivelò a sua madre la conoscenza di un così grande mistero? E da dove mi viene – disse Elisabetta – che la madre del mio Signore venga a me? (Lc 1,43). Chi ti indicò, o donna santa, che veniva a te la madre del tuo Signore? Non appena – disse – la voce del tuo saluto è giunta alle mie orecchie, il bambino ha esultato di gioia nel mio seno (Lc 1,44).
Ardeva dunque Giovanni, poiché dall’Altissimo era stato mandato un fuoco, per bocca di Gabriele, nel seno della Vergine, affinché tramite le parole della Vergine lo Spirito santo, venendo, infondesse ardore nel bambino e lo preparasse a essere lucerna per il Signore.

L’anima di Giovanni si sciolse quando Maria parlò.

Lo Spirito santo, che abitava pienissimamente nella Vergine, passò dalla Vergine su Giovanni, e da Giovanni su Elisabetta e Zaccaria. Perciò lo spirito di Maria esultò in Dio suo salvatore (cf. Lc 1,46-47) e subito, alla venuta di lui, Giovanni esultò nell’utero [della madre], ed esultò anche la madre. Profetarono il padre e la madre, tutti furono colmi di Spirito santo. Dal ventre di Maria fluiscono fiumi, poiché [egli] era una sorgente di acqua viva che zampilla per la vita eterna (Gv 4,14). Il fuoco dello Spirito santo infiammò con grande impeto tutti coloro che erano nella casa, poiché non vi era nessuno di loro che potesse sottrarsi al suo calore (Sal 18,7). Tutti ardono, tutti risplendono.

Pietro di Blois

Vai al libro: Padri della chiesa d’occidente, Un testo al giorno

Maria concepisce ascoltando e credendo

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Leggi tutto: Maria concepisce ascoltando e credendoDi’ [angelo] Gabriele, parla alla Vergine, perché possiamo udire. Egli dice: Non temere, Maria, poiché hai trovato grazia presso il Signore. Ecco, concepirai nel tuo ventre, e partorirai un figlio, e gli darai nome Gesù. Egli sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo, il Signore Dio gli darà il trono di David suo padre, regnerà in eterno sulla casa di Giacobbe, e il suo regno non avrà fine (Lc 1,30-34).

Ecco, abbiamo udito l’annuncio, abbiamo udito il mistero dell’eterno disegno, abbiamo udito anche le parole della nostra liberazione; e abbiamo udito anche ciò che il re e profeta David dice a questa nostra regina, a questa sua figlia, a proposito di questo annuncio, quando dice: Ascolta, figlia, guarda e porgi l’orecchio, dimentica la tua gente e la casa di tuo padre, poiché il re ha desiderato la tua bellezza; egli, infatti, è il Signore tuo Dio (Sal 44,11-12). Ascolta, dice, figlia mia, della mia stirpe, della mia discendenza, nobiltà e gloria della mia stirpe, ascolta ciò che l’angelo dice, ciò che il messaggero celeste ti promette. Sii prudente, sii sollecita, ascolta con attenzione poiché sono cose grandissime quelle che ti vengono annunciate. Guarda, dunque, e comprendi, accogli la Parola nel cuore e nel tuo ventre: vergine concepirai e vergine partorirai, poiché entra in te dall’orecchio colui che da te nascerà. Egli, infatti, è la Parola, e via della Parola è l’orecchio. Non in altro modo, infatti, concepisce la beata vergine Maria, se non ascoltando e credendo. Se non avesse udito, non avrebbe creduto. Ascoltò e credette, e credendo concepì.
Ecco – disse – la serva del Signore. Mi avvenga secondo la tua parola (Lc 1,38). Questo fu il concepimento di Cristo, in questa maniera egli fu concepito, e in questa maniera la Parola si è fatta carne (Gv 1,14).

Vai al libro: Padri della chiesa d’occidente, Un testo al giorno