L’attitudine dell’ascolto

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Il ritiro ci chiede l’attitudine dell’ascolto perché ascoltando una parola monastica che viene da un altro ambiente monastico possiamo guardare alla nostra vita in maniera rinnovata: il fine non è quello di avere informazioni nuove, ma di approfondire, di andare più a fondo di noi stessi, della nostra vita e della nostra vocazione. Non l’esteriore informazione ne è il fine, ma l’interiore trasformazione.

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La gioia come obbedienza

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L’esercizio alla gioia è mettere in pratica la fede, la vita in Cristo. E diviene dono per la comunità. Perché la gioia, la gioia nel Signore, è diffusiva e spande luminosità: anche la gioia edifica la comunità, anche la gioia è obbedienza al Vangelo, anche la gioia nasce dalla fede e la esprime.

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Sulla stessa strada

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Giovanni Battista, il Precursore del Messia e, in certo modo, anche della vita monastica, non è solo uno che conosce le Scritture, ma che le vive. E per vivere le Scritture nella propria carne occorre viverle per tutta la vita. Occorre essere loro fedeli e declinarle nelle diverse situazioni in cui ci si viene a trovare, anche e soprattutto quelle di contraddizione, di ostilità, di inimicizia.

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La pratica del silenzio

Il cattivo uso della parola e le disfunzioni comunicative, che creano patologie relazionali gravi, hanno la loro origine anche in un’assenza della pratica del silenzio. Di quel silenzio, almeno, che è un lavoro, un’azione, un fare silenzio, non un mero tacere. E coinvolge tutta la persona in una scelta e decisione interiore, in un atto di volontà

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La solitudine del celibato

Decisivo perché il difficile celibato possa essere vissuto con una certa serenità e libertà è che in comunità si crei un clima di benevolenza, di accoglienza reciproca, di pazienza, di sopportazione, di rispetto reciproco, di disciplina della parola tra membri della comunità, tra fratelli e sorelle. E che a questo tutti collaborino.

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