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ALBERT GERHARDS

Leggi tutto: ALBERT GERHARDSAlbert Gerhards (Viersen-Dülken, 1951), dottore in teologia, dal 1989 ricopre l’incarico di Professor für Liturgiewissenschaft und Direktor des Seminars für Liturgiewissenschaft presso la Facoltà cattolica di teologia dell’Università di Bonn. Dal 1991 al 2001 è stato consultore della Commissione per la liturgia della Conferenza episcopale tedesca; è membro della Societas Liturgica, dell’Internationalen Arbeitsgemeinschaft für Hymnologie, del Deutschen Liturgischen Instituts, del Deutschen Gesellschaft für christliche Kunst. Dal 2003 è membro del Comitato scientifico dei Convegni Liturgici Internazionali del Monastero di Bose.


Proposte di lettura

- Communio-Räume. Auf der Suche nach der angemessenen Raumgestalt katholischer Liturgie, Albert Gerhard, Thomas Sternberg, Walter Zahner (Hrsg.); unter Mirarbeit von Nicole Wallenkamp, Regensburg, Schnell & Steiner, 2003.
«Il dibattito sull’orientamento: riflessioni teologiche», in G. Boselli (ed.), Spazio liturgico e orientamento. Atti del 4. Convegno liturgico internazionale, Bose, 1.-3 giugno 2006, Magnano, Edizioni Qiqajon - Comunità di Bose, 2007, pp. 167-188.
- La liturgia della nostra fede, Magnano, Edizioni Qiqajon - Comunità di Bose, 2010.
- Licht. Ein weg durch räume und zeiten der liturgie, Regensburg, Schnell et Steiner, 2011.
- Erneuerung kirchlichen Lebens aus dem Gottesdienst. Beiträge zur Reform der Liturgie, Stuttgart, Kohlhammer, 2012.
- Liturgie und Ästhetik, hrsg. von Albert Gerhards und Andreas Poschmann, Trier, Deutsches Liturgisches Institut, 2013.
- «Frequentare mysteria. L’orientamento della preghiera e la forma dell’assemblea liturgica», in La sapienza del cuore. Omaggio a Enzo Bianchi, Torino, Einaudi, 2013.


https://www.liturgie.uni-bonn.de/lehrstuhl/mitarbeiter-1/lehrstuhlinhaber

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Progettare insieme per fare chiesa - Avvenire 4 giugno

Monastero di Bose
Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto – Cei
Consiglio Nazionale Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori

XV CONVEGNO LITURGICO INTERNAZIONALE
ABITARE
CELEBRARE
TRASFORMARE

processi partecipativi tra liturgia e architettura

BOSE, 1-3 giugno 2017


Avvenire 4 giugno 2017
di LEONARDO SERVADIO

Abbiamo imparato a fare chiesa» ha dichiarato uno dei giovani partecipanti al laboratorio attivato nella comunità monastica di Bose alla conclusione del XV Convegno liturgico Internazionle (CLI), svoltosi da giovedì a ieri e articolato secondo tre vie: “Abitare, Celebrare, Trasformare”. L’iniziativa è intesa a riprendere alla radice il concetto del luogo di culto, per comprendere come costruirne ancora oggi e di un valore paragonabile a quelle lasciateci dal passato. In questi primi mesi di lavoro, anzitutto i giovani hanno imparato a pensare e a sperimentare assieme: «È questa la prima grande lezione che abbiamo appreso» hanno spiegato i partecipanti al CLI/Lab.

La Chiesa di “pietre vive” è quella che sarà capa- ce di edificare l’altra, quella di solidi muri, destinata a durare nel tempo e a «testimoniare la nostra opera, anche al di là del tempo che ci è concesso su questa terra», come ha chiosato Carlo Ratti alla conclusione del convegno. Questo si è diffuso su tematiche apparentemente lontane tra loro, dalla teologia alla tecnologia. Ma necessariamente tutte concorrono alla definizione degli ambienti in cui viviamo, tenendo conto del fatto che la chiesa resta l’architettura principale per la vita sociale. Non solo la città europea è per tradizione incentrata proprio sulla chiesa ma, come ha ricordato Luigi Bartolomei nell’aprire la seconda giornata del convegno, l’annuncio cristiano porta a compimento, nel grembo materno di Maria, l’attesa del sacro che è presente nell’uomo da sempre, sin dalle grotte preistoriche sulle cui pareti si sono assommati graffiti per millenni, a dimostrazione di come quelli fossero luoghi sacri, primari per l’identità dei gruppi umani che vi si riconoscevano. «Più che distanza o opposizione – ha detto Bartolomei – tra quei culti lontani e il messaggio cristiano v’è compimento» portato dall’azione consolatrice, quella che toglie dalla solitudine attraverso l’accompagnamento: sicché l’azione dello stare insieme che diviene luogo (con-solo), poiché l’essenza dell’umano è di carattere relazionale. Per cui lo spazio della città, luogo primario dell’essere comunità, si ricollega immediatamente alla sacralità nel momento in cui si riallaccia alla memoria delle generazioni passate: e non a caso la città sorge prossima al cimitero. In tale nesso si trovano archetipi tuttora attivi nella psiche collettiva, che la Chiesa porta a compimento nel riassumerli attraverso le testimonianze della buona novella.

Ecco dunque che continuità e trasformazione sono intimamente riassunti nell’edificio che meglio esprime la presenza della comunità nel trascorrere della storia. Il cui aspetto dinamico è stato evidenzato anche da Louis-Marie Chauvet che ha discusso dei riti del passaggio – e i riti sono tutti collegati a un passaggio, a una pasqua. A partire dalle esequie che implicano sempre accoglienza e accompagnamento, al rito dell’accensione del cero segno di risurezione. Sono questi gesti che “fanno” chiesa e nella loro essenzialità si spiegano da soli, ha insistito Chauvet notando come invece a volte si carica il rito di eccessive spiegazioni quando, per l’architettura come per la liturgia, “less is more”, il meno è più.

«Uno dei problemi in architettura – ha osservato Andrea Longhi, docente al Politecnico di Torino e uno dei mentori del laboratorio giovani del CLI insieme con Luigi Bartolomei, Stefano Biancu, don Valerio Pennasso e i monaci di Bose Goffredo Boselli, Emanuele Borsotti e Massimo Buongiorno – sta nel pregiudizio determinato dalle immagini che ciascuno di noi ha in mente, di spazi o luoghi esistenti». Di qui la necessità di acquisire una più vasta conoscenza di luoghi e immagini così da aprire lo sguardo a panorami più vasti e, soprattutto, la necessità dell’ascolto, senza la quale i processi partecipativi necessari alla giusta architettura sarebbero impossibili.
Solo la capacità di ascolto consente di interpretare la complessità. Che diviene sempre più articolata per via delle potenzialità offerte dalla tecnologia all’arte del progettare.

Al riguardo Carlo Ratti, architetto torinese docente al MIT di Boston, ha presentato diversi esempi di come attraverso l’informatica si possano ottenere sistemi capaci di regolare il controllo climatico (che può persino essere focalizzato sulla singola persona per evitare dispersioni di energia), o si possano disegnare luoghi con elementi un tempo impensabili, quali i getti d’acqua regolati al punto da comporre pareti intere. Ma tecnologie così avanzate richiedono la massima compartecipazione. In un progetto per Medina in Arabia Saudita hanno dovuto interagire specialisti in tredici diverse discipline: la progettazione oggi è firmata da gruppi, così come lo è la ricerca scientifica, oggi non più appanaggio di singoli, ma solo di team di lavoro. L’architettura partecipata ha trovato nel sistema dei concorsi attivati dalla Conferenza Episcopale Italia- na sin dalla fine degli anni ’90, un esempio fruttuoso: l’ha notato Gabriele Cappochin, presidente del Consiglio Nazionale Architetti PPC, che in apertura del convegno notava quanto fosse auspicabile che i sistemi partecipativi studiati dalla Chiesa italiana fossero adottati anche per le opere pubbliche. Nel laboratorio giovani aperto a Bose sotto gli auspici della Cei, si trova un altro, ancor più aggiornato esempio di come procedere in ogni ambito della progettazione e conservazione degli spazi urbani, così che siano sentiti come autenticamente propri da ogni cittadino. Proprio come è ogni chiesa, per sua natura.

 

L'architettura riscopre il tempo - Avvenire 3 giugno

Monastero di Bose
Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto – Cei
Consiglio Nazionale Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori

XV CONVEGNO LITURGICO INTERNAZIONALE
ABITARE
CELEBRARE
TRASFORMARE

processi partecipativi tra liturgia e architettura

BOSE, 1-3 giugno 2017


Avvenire 3 giugno 2017
di LEONARDO SERVADIO

Abitare, celebrare, trasformare: un convengo atipico quello che si è aperto giovedì a Bose. A differenza delle quattordici edizioni precedenti, questo in- contro internazionale liturgi- co e architettonico non si è focalizzato su una specifica parte della progettazione per l’edificio chiesa. L’ha considerato invece nella sua complessità diacronica, storica, generativa e dinamica. Perché, come nell’aprire i lavori ha evidenziato Enzo Bianchi, il fondatore del monastero di Bose, la chiesa edificio esprime in ogni tempo e in ogni luogo la comunità per la quale è costruita e dalla quale è abitata. Ne è un poco come un vestito tagliato su misura: per forza di cose concepito secondo la sensibilità del momento e i gusti di chi lo indossa,  restando sempre del pari universale ma anche individuale.

E, ha evidenziato il teologo Dario Vitali, il modo di “fare” chiesa è mutato molto nel tempo, passando dalla condizione di assemblea concelebrante attorno a un altare centrale, com’era in epoca paleocristiana, sino a rivestirsi via via di maggiore carica gerarchica mentre l’altare, luogo principe del celebrare, veniva spostato verso l’abside dell’aula basilicale ponendo una separazione tra presbiterio e navata, fino a raggiungere la configurazione che esprime la condizione di potere acquisito dalla Chiesa dal tempo del Sacro Romano Impero. Ma non v’è, nel passato, epoca in cui tanto s’è dubitato della validità di questo che è il suo volto pubblico, quanto se ne dubita oggi: eppure, come notava Enzo Bianchi, anche oggi vi sono tante opere architettoniche di valore, spesso ignorate oppure mal interpretate. Come può essere il caso della recente chiesa bergamasca di San Giovanni XXIII, degli architetti Zublena e Traversi con opere d’arte di Andrea Mastrovito e Stefano Arienti che compongono un tutto armonico. Qui la luce spiovente disegna un ambiente di grande potere suggestivo sulla cui parete di fondo si aprono tre vetrate a mo’ di abside, dominate al centro dalla figura del crocefisso. Ma ecco che, pur poco dopo il completamento dell’opera, i fedeli hanno sentito la necessità di aggiungere alcune sta- tue in gesso incongrue con l’insieme.

È una delle molte manifestazioni dei problemi che riguardano la gestione delle chiese nuove, quanto di quelle storiche. Come far sì che la dignità che esse sono chiamate a rappresentare si traduca in espressioni visibili di bellezza, consone al tempo presente ma non immemori del passato? E che la comunità possa sentirsi in rapporto armonico con le chiese che abita e da cui è rappresentata?

Su questi problemi mira a incidere la discussione attivata col CLI lab (laboratorio Convegno Liturgico Internazionale) cui sono stati chiamati giovani progettisti e artisti perché riprendano a studiare lo spazio per il culto a partire dalle domande fondamentali che esso solleva nell’animo umano e che attengono alla collocazione e al significato della chiesa nello spazio urbano, al suo raccordo e alla sua distinzione rispetto a esso, al significato dell’abitarlo qui e ora: tema, quest’ultimo, su cui ha parlato Carla Danani, in merito alle prospettive filosofiche dell’abitare. Abitiamo l’ambiente ma ne siamo anche abitati, in una relazionalità circolare per la quale sin dall’origine apprendiamo dall’ambiente attraverso la nostra presenza corporea, mentre del pari lo condizioniamo: ragione per la quale ne siamo inevitabilmente responsabili. E quel che vi compiamo, a sua volta compirà su di noi. Il tema, dagli immediati risvolti ecologici, si riferisce anche al problema dell’identità della comunità, che si riflette nel luogo che essa abita e, abitandolo, la conforma.

Don Valerio Pennasso, responsabile del- l’Ufficio beni culturali e edilizia di culto del- la Conferenza Episcopale Italiana ha evidenziato la necessaria responsabilità e adeguatezza cui sono chiamati tutti coloro che sono coinvolti nelle azioni compiute sulla chiesa, dal momento della sua progettazione a tutto il tempo del suo restare quale luogo abitato dalla comunità: di qui la necessità di una progettazione che pensi non solo al risultato immediato, ma al fatto che l’edificio resta e richiede manutenzione, cura, adeguamento al trascorrere del tempo, al cambiare stesso delle comunità che lo abitano. Ne discende che lo spazio della chiesa è inevitabilmente dinamico e trasformativo, non solo perché si pone co- me “altro” rispetto a quello della vita di tutti i giorni, ma anche perché accompagna le comunità che vi si alternano, secondo un ritmo che diviene tanto più rapido oggi, quando uno stesso luogo può essere abita- to da comunità totalmente differenti nel giro di pochi anni, a seguito delle mutazioni demografiche dei quartieri.

La dinamicità dello spazio della chiesa è stata graficamente illustrata da Aaron Werbick e Gerald Klahr, riguardo alla chiesa di St. Martin a Stoccarda. Costruita nel 1936 e rimasta quale luogo di memoria storica e di valore identitario per generazioni, dal 2006 è stata aperta alla sperimentazione perché servisse quale spazio di pubblica utilità. I due progettisti hanno spiegato come in diverse fasi abbiano proposto anzitutto di far esperire che quella chiesa non dovesse re- stare “imbalsamata”, ma potesse cambiare pur mantenendo il proprio valore di ancoraggio storico e identitario. In una prima fase è stato aperto un inedito percorso di accesso laterale, che col semplice cambio di direzione portava una prima istanza di mutamento; in successive fasi sono state poste nuove installazioni composte da assi lignee che hanno dato luogo a diverse conformazioni tra presbiterio e navata, fino a porsi come ponte tra interno della chiesa e spazio antistante. Il tutto in un continuo dialogo con la comunità che sulle prima ha accolto con perplessità le proposte, poi vi si è impegnata attivamente e in modo propositivo. Così, se l’edificio in quanto contenitore restava invariato, una serie di elementi di contorno variavano consentendone un utilizzo diversificato, per eventi e momenti di- versi, extra liturgici.

È stato un modo di conoscere ex novo uno spazio consueto e di riabitarlo attraverso le trasformazioni esperite come momento riappropriativo. Nelle variazione, la comunità si è riappropriata del tempo, la dimensione su cui sembra più difficile incidere.

Se in opere come quella di Stoccarda le trasformazioni sono avvenute in pochi anni, tra il 2015 e il 2016, non v’è chiesa al mondo che non sia stata trasformata nei secoli, ovvero che non si ponga come luogo dinamico. La questione dunque è questa: come procedere perché questo dinamismo sia consciamente vissuto e partecipato dalla comunità che, abitando la chiesa, ne è responsabile?

Costruire chiese per abitare l'attualità - Avvenire 1 giugno

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Avvenire 1 giugno 2017

Negli ultimi decenni si è riflettuto poco sul fatto che la chiesa, popolo in cammino, è una realtà in continua trasformazione. Vi è in primo luogo un mutamento della fede nella comunità cristiana: la fede cambia, non solo nel modo di esprimersi, ma perché assume altri accenti, altre immagini di Dio e di Cristo. Il “Credo” è sempre lo stesso, eppure nessuno di noi crede nello stesso modo in cui credeva da giovane, o come si credeva prima della rivoluzione antropologica, culturale e teologica degli anni ’60 del secolo scorso. Si registra anche un mutamento della società, un passaggio dall’assetto della cristianità a una situazione inedita, negli ultimi secoli in cui la chiesa è tornata a essere una comunione di minoranze, senza più poter “reggere” la società, ormai secolarizzata.

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Chiese per le città di oggi - La Repubblica 1 giugno

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La Repubblica 1 giugno 2017

I secoli di cristianesimo che ci stanno alle spalle testimoniano che quando la fede è pensata, ovvero quando tutti gli ambiti in cui essa si esprime non sono ignorati, trascurati o lasciati al caso, la fede giunge da sé a creare cultura. Sì, una fede vissuta con intelligenza crea cultura, che si esprime tanto nelle forme del pensiero quanto nell’espressione artistica, sia essa figurativa, musicale o architettonica.

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