Sintesi dei lavori di mercoledì 3 settembre 2014

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

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SINTESI DEI LAVORI DI MERCOLEDÌ 3 SETTEMBRE 2014

La prima giornata del convegno si è aperta e si è svolta in un clima di pace e di fraternità tra i partecipanti. Il priore di Bose e presidente del comitato scientifico del convegno, fr. Enzo Bianchi, ha salutato l’inizio dei lavori sottolineando la (purtroppo) scottante attualità del tema, a causa delle numerose guerre che in questo momento sono in corso in vari luoghi del pianeta, e ha ricordato a tale proposito le recenti parole del Santo Padre Francesco, secondo il quale siamo oggi di fronte alla “terza guerra mondiale, anche se combattuta a capitoli” e non tutta insieme. Prima dell’inizio dei lavori, è stata data lettura dei principali messaggi dei capi delle chiese rappresentate in sala, che hanno voluto rivolgere il loro saluto ai partecipanti ed esprimere la loro piena consonanza sul bisogno di una riflessione seria riguardo al tema della pace: il Metropolita Athenagoras del Belgio ha letto il messaggio di S. S. il Patriarca Ecumenico Bartholomeos; il vescovo Kliment, a capo della delegazione del Patriarcato di Mosca, ha letto il messaggio del Metropolita Ilarion di Volokolamsk a nome di S. S. il patriarca di Mosca Kirill; infine lo stesso priore Enzo ha dato lettura del telegramma del Card. Pietro Parolin, segretario di Stato di Sua Santità, che ha trasmesso la benedizione del Santo Padre Francesco. Di seguito, la relazione iniziale di Aristotle Papanikolaou, dell’università di Fordham, è servita a impostare il tema nelle sue linee generali: attraverso una sapiente lettura, che cercava di combinare le fonti tradizionali della teologia ortodossa (Bibbia e Padri) con i dati delle scienze umane, il relatore, ha proposto un’antropologia cristiana della pace, indicando l’amore (declinato come perdono) come la via cristiana della pace, che pur non cancellando o superando la violenza, permette tuttavia di convivere con essa, di viverla dall’interno in un’altra dimensione (il Cristo risorto, ha ricordato, conserva le ferite ricevute sulla croce, nonostante esse siano ormai assunte nella sua condizione di risorto). In modo simile il secondo relatore, il biblista russo Michail Seleznev, nel cercare di giustificare la scandalosa presenza della violenza nel Salterio, il libro per eccellenza della preghiera ebraico-cristiana, ha proposto di vedere in questi testi un mezzo per confessare e manifestare onestamente di fronte a Dio (senza nasconderla) la violenza che abita l’uomo, come necessaria premessa della sua trasfigurazione in una prospettiva più propriamente cristiana.

Aristotle Papanikolaou, Per un'antropologia cristiana della pace (TESTO INTEGRALE)

 

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Le conferenze del pomeriggio hanno completato la presentazione generale del tema, affrontandolo dal punto di vista della teologia neotestamentaria, in particolare del vangelo di Giovanni (Christos Karakolis), della teologia liturgica (Metropolita Andrej di Austria, Svizzera e Malta) e della teologia patristica (Porphyrios Giorgi). Il pomeriggio si è concluso con una vivace discussione, con numerosi interventi da parte del pubblico presente in sala, in cui sono state poste alcune delle questioni più spinose con cui si confrontano oggi le chiese cristiane, in particolare ortodosse (“la pace evangelica è pura utopia?”, “in che misura si può ammettere una violenza legittima?”, “la chiesa può benedire le armi?”, “cosa fare di fronte all’oppressore dell’innocente?”). In linea generale, comunque, la condanna della violenza e la sua impossibile conciliazione con la prospettiva cristiana ed evangelica è stata unanime da parte dei relatori. Le chiese, è stato affermato, se sono fedeli alla loro missione, possono solo essere ponti di unione e di pace, mai elemento che favorisce la guerra e la divisione.

Sintesi dei lavori di giovedì 4 settembre 2014

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

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La seconda giornata del convegno è stata dedicata ad approfondire il tema della pace nella tradizione spirituale delle chiese cristiane, già impostato nelle sue linee generali durante il primo giorno. Le tre conferenze del mattino, in particolare, sono state dedicate a tre case studies, che in contesti diversi mostrano declinazioni e aspetti particolari della pace evangelica: san Clemente di Roma, l’autore della celebre Prima lettera ai Corinti (ma anche il Clemente “costruito” dalla tradizione agiografica posteriore soprattutto slava) è il santo vescovo che ristabilisce la pace all’interno del corpo ecclesiale minacciato dalla divisione (Daria Morozova); sant’Ireneo di Lione, il grande padre della chiesa e teologo del II secolo, è il portatore di pace nei conflitti tra le comunità, che promuove uno stile di riconciliazione inter-ecclesiale capace di considerare le differenze nella pratica come una testimonianza dell’unità nella fede (John Behr); i padri della tradizione ascetico-monastica del deserto, infine, nella loro vita come nei loro scritti, pur non ignorando gli altri aspetti, danno una preminenza all’aspetto interiore della pace, la “pace di Dio in noi” che vince le passioni che abitano l’uomo (Symeon Paschalidis).

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La prima conferenza del pomeriggio (Cyril Hovorun) ha affrontato il tema cruciale (con ricadute ancora molto attuali) dell’uso della violenza e della coercizione nel quadro delle relazioni tra chiesa e stato, mostrando come la chiesa nella tarda antichità, a partire dalla “pace costantiniana”, abbia troppo facilmente rinnegato le proprie radici evangeliche per lasciarsi influenzare dai metodi coercitivi propri dell’istituzione imperiale romana: solo la modernità e l’avvento del pluralismo l’hanno aiutata a superare progressivamente questa grave e indebita alterazione del messaggio evangelico per riscoprire la propria autentica natura non-violenta. Le ultime tre conferenze del pomeriggio sono state dedicate a tre grandi figure di “testimoni della pace” che, per appartenendo a tre diverse tradizioni ecclesiali ufficialmente non in comunione tra di loro (quella cattolica-latina, quella armena, e quella bizantino-slava), hanno manifestato la loro intima sintonia, vivendo e testimoniando in modo simile l’autentica pace evangelica: san Francesco di Assisi (Panaghiotis A. Yfantis), san Narses di Lambron (Adam Makaryan) e san Silvano dell’Athos (Sr. Magdalen di Maldon). Quest’ultimo, in particolare, è uno dei grandi santi del XX secolo, che nei suoi scritti ha mostrato lo stretto e intimo legame tra la pace intesa in senso evangelico e l’amore dei nemici, il punto più alto della scala dell’amore, perché – affermava – “chi non ama i suoi nemici non troverà mai pace, neppure se fosse posto in paradiso”; ma noi possiamo amare i nemici solo in virtù di una grazia dello Spirito santo.

LEGGI: Panaghiotis A. Yfantis, Francesco di Assisi, un testimone della pace (testo completo)

LEGGI: Sr. Magdalen di Maldon, La pace interiore e l’amore per il nemico: san Silvano dell’Athos (testo completo)

I lavori del convegno, come il giorno precedente, sono stati scanditi dalla preghiera liturgica della Comunità, che oggi ha celebrato la memoria di san Mosè profeta, che la tradizione biblica e patristica ricordano come “l’amico di Dio” e “il più mite tra tutti gli uomini”.

Dopo il pranzo un gruppo di ortodossi partecipanti al convegno, su invito del vescovo + Filaret di Leopoli e Galizia, si è radunato nella chiesa della comunità per celebrare una supplica (litia) in memoria del centenario della deportazione, da parte delle autorità austro-ungariche, degli ucraini rumeni nel campo di concentramento di Talerhof (Austria).

Nel pomeriggio, l'Archimandrita Athenagoras Fasiolo, della Metropoli ortodossa d'Italia, nel rivolgere ai partecipanti il saluto e il ringraziamento del Metropolita Ghennadios d'Italia, ha reso nota l'iniziativa intrapresa dalla comunità monastica di Montaner (Treviso) per la ricostruzione della chiesa del suo monastero recentemente distrutta a causa di un incendio

Sintesi dei lavori di venerdì 5 settembre 2014

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

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SINTESI DEI LAVORI DI VENERDÌ 5 SETTEMBRE 2014

Nella terza mattinata del convegno è proseguita la presentazione dei “testimoni della pace”, focalizzandosi su quattro grandi figure della recente storia della chiesa, che hanno aperto cammini di pace e di riconciliazione contribuendo ad abbattere i muri della divisione e del sospetto: 1) Nikolaj Nepluev (Natalija Ignatovich), fondatore in Russia della “Fraternità ortodossa di lavoro dell’Esaltazione della croce”, che cercava di promuovere l’ideale della pace tra gli uomini attraverso una vita evangelica basata sulla fede, sull’amore e sul lavoro; 2) il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Athenagoras (Athenagoras del Belgio), uomo evangelico di pace e promotore del “dialogo della carità” tra le chiese, che riteneva che “senza ritorno alla religione dell’amore e del perdono, la pace non potrà regnare”; 3) il teologo bulgaro Stefan Zankov (Viktor Mutafov), uno dei pionieri del movimento ecumenico, che lavorò ugualmente per aprire la strada al dialogo tra i cristiani delle diverse confessioni; 4) André Scrima (Anca Manolescu), teologo rumeno, archimandrita del Patriarcato ecumenico, promotore di un dialogo profondo tra le religioni, che faccia spazio a quel “silenzio” trascendente di Dio che precede ogni parola umana, e a quella “pace” presente al cuore delle stesse religioni che assicura la possibilità stessa del dialogo, e ciò allo scopo di giungere ad approfondire insieme il mistero di Dio, tendendo parallelamente verso la sua infinità di vita e di senso. Nelle discussioni in sala si è accennato ai frutti viventi e concreti che l’opera di questi autentici “pacificatori” hanno lasciato in eredità alle rispettive chiese, plasmando un’ortodossia serenamente aperta all’incontro e al dialogo con gli “altri”. La via aperta da questi pionieri – si è sottolineato – è senza ritorno e, nonostante le resistenze da parte di gruppi minoritari (ma spesso molto capaci di far sentire la propria voce, facendola passare per “la voce dell’ortodossia”), è largamente accolta dall’insieme del popolo di Dio presente nelle varie chiese ortodosse.

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Al pomeriggio si è svolta una tavola rotonda sul tema del convegno, presiedeuta da Jim Forest e con la partecipazione di Amal Dibo (Beirut, Libano), Pantelis Kalaitzidis (Volos, Grecia), Aleksander Ogorodnikov (Mosca, Russia), Konstantin Sigov (Kiev, Ucraina). Alla discussione ha preso parte attiva anche il pubblico presente. Molte le questioni affrontate, alcune delle quali, come era prevedibile, direttamente legate alla recente attualità delle guerre in Ucraina e in Medio Oriente. Da parte di molti è stata affermata la necessità che le chiese ortodosse si liberino dal nazionalismo e dai legami con gli stati nazionali in cui si trovano a vivere: la fede cristiana – è stato affermato – non ammette la sacralizzazione di nessuna terra, poiché “tutta la terra appartiene a Dio”, e ovunque i cristiani si trovino a vivere, devono avere sempre la coscienza di essere anche e soprattutto cittadini di un’altra terra, quella celeste ed escatologica, e che nessuna terra quaggiù può appartenere loro in modo stabile. Si è affermata quindi l’urgente necessità per la Chiesa – per ogni chiesa – nel contesto degli attuali conflitti, di non difendere soltanto i “suoi”, ma tutte le vittime senza distinzioni, di tutte le guerre e di ogni violenza: gli stessi cristiani, del resto, per lo più subiscono violenza negli attuali conflitti (ad esempio in Medio Oriente) non in quanto cristiani, ma in quanto vittime indifese della folle violenza di regimi che utilizzano la religione solo come pretesto per i loro scopi. Il silenzio delle chiese di fronte al dramma delle popolazioni dei paesi del Medio Oriente è quindi intollerabile. In sala è stata posta la domanda: “la chiesa può benedire le armi?”. Per quanto retorica possa apparire dal punto di vista del Vangelo (che non ammette dubbi su questo tema), la domanda porta la chiesa a un serio esame di coscienza sul proprio agire: di fatto le armi sono state e ancora vengono benedette, sia letteralmente che in senso metaforico. Ma oggi più che mai – hanno detto alcuni – esiste per le chiese un’alternativa a tale comportamento: usare la parola di cui dispongono per denunciare apertamente e con coraggio la violenza e le guerre e ciò che ad esse conduce.

La tavola rotonda è stata preceduta da alcuni minuti di preghiera, per ricordare insieme le vittime delle guerre in corso, in particolare i due vescovi di Aleppo, Paul Yazigi, della Chiesa Ortodossa di Antiochia, e Youhanna Ibrahim della chiesa Siro-Ortodossa, che si trovano tuttora nelle mani dei rapitori insieme a numerosi altri ostaggi.

Sintesi dei lavori di sabato 6 settembre 2014

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

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La quarta e ultima giornata del convegno, iniziata con la divina liturgia ortodossa celebrata nella chiesa del monastero dall'archimandrita Athenagoras Fasiolo, ha previsto due relazioni conclusive di John Chrissavgis e di Kallistos di Diokleias. La prima ha proposto una lettura dell’intera serie delle beatitudini matteane, sulla falsariga dell’invocazione liturgica “per la pace del mondo intero”, che – come è stato sottolieato – “include ogni angolo della creazione di Dio, fino all’ultimo granello di polvere” consegnandolo alla responsabilità dei cristiani. La seconda, fondandosi soprattutto sull’analisi dei testi liturgici e patristici, ha messo in rilievo i vari aspetti della pace cristiana, sottolineando come in definitiva essa significhi “l’irruzione del regno escatologico nell’attuale ordine mondano” e come essa sia “rivoluzionaria” e tutt’altro che una condizione passiva. Ogni cristiano che partecipa alla liturgia eucaristica riceve il preciso mandato di “procedere in pace”, ovvero di trasmettere al mondo circostante quella pace eucaristica e quella speranza di cui lui stesso è stato colmato: “Cristo ha dato se stesso per te; ora tu sei chiamato a dare te stesso per gli altri!”. La pace “che viene dall’alto”, da Dio, ha necessarie e precise implicazioni sociali, da adempiere quaggiù sulla terra, che chiamano ciascun credente a non rimanere chiuso in sé, ma ad aprirsi al servizio e alla carità: “la dossologia deve diventare diakonia”.

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Il convegno si è poi terminato con le Conclusioni presentate da p. Michel Van Parys a nome del Comitato scientifico del Convegno, che ha fatto sintesi degli stimoli e dei contributi emersi dalle varie relazioni, sottolineando tra l’altro “lo stretto legame tra l’unità della chiesa e la pace nel mondo”, e che tutte le chiese devono “decostruire le false immagini che hanno le une delle altre”, riconoscendo nel pentimento e nella conversione (metanoia) ciascuna le proprie colpe, e che infine le chiese tutte insieme “portano una grave responsabilità nella promozione della pace in questo mondo”. Ha concluso consegnando all’uditorio, a mo’ di congedo e come stimolo di riflessione, un apoftegma dei padri del deserto che ci parla di uno dei quegli “artefici di pace” che a proprio rischio e pericolo ha continuato a sperare e ad agire:

Vi era un anacoreta, un uomo di grande discernimento, che desiderava abitare alle Celle e non trovava una cella pronta. Un altro anziano, che aveva una cella vuota, venuto a conoscenza del desiderio dell’anacoreta, lo supplicò di venire a stabilirsi in quella cella, finché non ne avesse trovata un’altra. L’anacoreta allora vi andò e vi si stabilì. Alcuni anziani del luogo cominciarono a fargli visita, come a un ospite, e ciascuno gli portava quel che poteva. Egli li accoglieva e li ospitava. Ma l’anziano che gli aveva dato la cella, cominciò a provare invidia e a dir male di lui. Diceva: “Io sono rimasto qui per tanti anni, praticando una severa ascesi, e nessuno veniva da me; questo impostore invece è qui da pochi giorni ed ecco che tutti vengono da lui!”. E disse al suo discepolo: “Va’ a dirgli: ‘Va’ via di qui, perché ho bisogno della cella’”. Ma il discepolo andò dall’anziano e gli disse: “Il mio abba chiede come stai”. Quello rispose: “Digli che preghi per me, perché ho mal di stomaco”. Ritornato da chi l’aveva inviato, il fratello disse: “L’anziano ha detto: ‘Ho visto un’altra cella e me ne vado’”. Due giorni dopo, l’anziano disse di nuovo al discepolo: “Va’ e digli che, se non se ne parte, vengo io a scacciarlo con un bastone”. Il fratello ritornò dall’anacoreta e gli disse: “Il mio abba ha saputo che sei malato; ne è molto dispiaciuto e mi ha mandato a farti visita”. Quello gli rispose: “Digli che, grazie alle sue preghiere, sto bene”. Il discepolo ritornò dal suo anziano e gli disse: “Ha detto: ‘Aspetta fino a domani e, se Dio vuole, me ne andrò’”. Giunse la domenica e l’anacoreta non uscì dalla cella. L’anziano allora prese un bastone e partì con l’intenzione di percuoterlo e cacciarlo via. Mentre stava per partire, il discepolo gli disse: “Ti precedo nel caso che si trovino là dei fratelli e ne restino scandalizzati”. L’anziano glielo permise. Il fratello allora corse avanti e disse all’anacoreta: “Il mio abba viene a trovarti e ad accoglierti nella sua cella”. Quello, vedendo l’amore dell’anziano, uscì incontro a lui e gli fece una metanìa da lontano dicendo: “Vengo verso la tua santità, padre. Non ti affaticare”. Dio allora, vedendo l’opera del giovane, mosse a compunzione l’abba che, gettato via il bastone, corse ad abbracciare l’anacoreta. Lo abbracciò e lo condusse nella sua cella, come se quello non avesse udito nulla di quanto egli gli aveva mandato a dire; quindi disse al suo discepolo: “Non gli hai riferito niente di quello che ti avevo detto?”. Quello rispose: “No”. E l’anziano, a queste parole, fu pieno di gioia e capì che l’invidia proveniva dal Nemico e così lasciò in pace l’anziano. Poi cadde ai piedi del suo discepolo e gli disse: “Tu sei mio padre e io tuo discepolo, perché grazie a quello che hai fatto, le nostre due anime sono salve”. (Detti dei padri, N 451, in Detti editi e inediti, a cura di L. Cremaschi e S. Chialà, Qiqajon, Bose 2002, pp. 190-192).

Il priore, a nome della Comunità, ha espresso un ringraziamento al Signore per questi giorni di grazia e di pace, che hanno permesso ancora una volta, nel mistero dell’incontro reciproco, di rinnovare la fiducia gli uni negli altri (v. testo integrale), e ha dato appuntamento a tutti per il prossimo anno.

Ringraziamenti finali di Enzo Bianchi

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

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Io vorrei semplicemente esprimere un grande ringraziamento innanzitutto al Signore. Non è difficile per noi riconoscere che il Signore ci accompagna in questi convegni, che il Signore ci custodisce e ci permette di rinnovare la fiducia gli uni negli altri, la fiducia nel confronto, nel dialogo, la fiducia nel poter camminare insieme verso una comunione più profonda che lo Spirito Santo prepara in ciascuno dei nostri cuori, nelle nostre comunità e nelle nostre chiese. Il ringraziamento al Signore è quello che noi esprimiamo sempre nella preghiera, perché ogni preghiera è eucaristia, è ringraziamento, per tutti i doni che il Signore ci fa. Ma di tutti i doni il più importante è il dono della sua misericordia, l’unico dono di cui abbiamo veramente bisogno. E se noi abbiamo la misericordia del Signore su di noi, diventiamo anche noi misericordiosi, a immagine del suo Nome santo e glorioso, e dalla sua misericordia traiamo la possibilità di essere operatori di pace. Al termine di questo XXII Convegno Ecumenico, il ringraziamento si lega forzatamente a una epiclesi, a una domanda di pace. Questa domanda noi la facciamo al Signore perché le nostre chiese sempre hanno bisogno della sua pace ma in questo momento ne hanno particolarmente bisogno. Alcuni interventi, alcuni contributi al convegno hanno certamente indicato una pista di meditazione perché noi diventiamo costruttori di pace, proprio accogliendo la nostra debolezza e riconoscendo il nostro peccato e invocando la misericordia del Signore. La pace non viene dalla forza, la pace non viene da nessuna superiorità, la pace non viene da nessuna grandezza mondana, la pace non viene da nessun potere e da nessun riconoscimento di questo mondo. L’uomo di pace, non dimentichiamolo, secondo il Vangelo è l’Adam debole, l’uomo per eccellenza: Gesù Cristo, che flagellato e incoronato di spine è presentato da Pilato come l’uomo vero, l’uomo che Dio ha sempre pensato, l’uomo che dà la vita per gli altri, l’uomo nel quale Dio stesso si è dato per tutti noi amandoci fino a consegnare suo figlio. Nelle nostre vite, come diceva l’archimandrita Sofronio, la pace è una forza di dolcezza e di mitezza, una mitezza e una dolcezza che possono essere accolte da ciascuno di noi, se noi sappiamo invocare il Signore. Allora la pace che vogliamo costruire nelle nostre comunità e nelle nostre chiese è una pace che tiene sempre davanti agli occhi la comunione, perché se noi cristiani non sappiamo vivere la comunione, non sappiamo cercare la comunione non sappiamo neanche darci la pace. Non dimentichiamo che al cuore di ogni nostra liturgia eucaristica di tutte le chiese il Signore che si fa presente in mezzo a noi fa come suo dono la pace: “La pace sia con voi”. Ecco la fonte della nostra pace. Ma nel quotidiano noi dobbiamo impegnare tutte le nostre energie e predisporre tutto nelle nostre vite perché lo Spirito Santo possa agire e possa ispirare pensieri e azioni di pace. Il nostro convegno è stato un incontro, credo che possiamo dire anche molto leale. Alcune volte ha anche toccato dei punti difficili e scottanti, che potevano essere causa di una certa contraddizione, ma non lo sono stati: abbiamo mantenuto la pace perché il Signore ha regnato al di sopra di noi e nei nostri cuori più dei nostri pensieri e delle nostre parole. Ed ecco allora questo convegno - che come tutti gli altri ha avuto la benedizione del Patriarcato ecumenico e del Patriarcato di Mosca, che ci hanno sempre sostenuto e incoraggiato, ma anche dalle altre chiese ortodosse - questo nostro convegno vuole essere sempre un’occasione di pace e di amicizia, qualunque tema sia alla nostra considerazione.

E allora permettetemi di concludere davvero con i ringraziamenti. I ringraziamenti sono sempre un insieme di nomi e possono sembrare sonoramente anche qualcosa di noioso, ma quando diciamo il nome di una persona noi lo diciamo in Dio e davanti a Dio e allora il nostro ringraziamento diventa qualcosa che possiamo seguire con convinzione, con il cuore, come una vera e propria epiclesi. Ecco allora, il ricordo del Patriarca di Costantinopoli Bartholomeos e del Metropolita delegato Athenagoras del Belgio, del Metropolita di Diokleia Kallistos, senza dimenticare l’arcidiacono John Chryssavghìs e l’archimandrita del Trono Ecumenico Athenagoras. Li ringraziamo. E la celebrazione della Divina Liturgia sta mattina, che non abbiamo condiviso però ci ha fatto sentire come l’unico battesimo ci faceva riconoscere Cristo presente come Risorto in mezzo a noi. Il Patriarca di Mosca Kiril, il Metropolita Zossìma, che è tornato con grande bontà in mezzo a noi, il Vescovo Kliment capo delegazione, con padre Alexei e padre Arsenij; i vescovi Filaret di Lviv e Galizia, delegato del Metropolita Onufrij della Chiesa ortodossa ucraina e il Vescovo Ilarij di Makariv; i monaci della lavra delle grotte; il Vescovo Stefan di Gòmel e Zlobin, dell’Esarcato di Bielorussia, ritornato in mezzo a noi per rappresentare il Metropolita Pavel. Ringrazio tutte le Chiese che hanno inviato i loro rappresentanti o messaggi di fraterna partecipazione, che voi troverete tutti sul sito internet della nostra comunità. E ci ha rallegrato molto il messaggio del Patriarca di Bulgaria, Neofìt, e del Santo Sinodo della Chiesa copta ortodossa.

I Vescovi che hanno frequentato il convegno e ci hanno visitato. La lista è lunga. Nomino quelli che sono qui: l’ArciVescovo Antonio Mennini, Nunzio apostolico in Gran Bretagna, il Vescovo di Volterra Alberto Silvani; poi i membri e delegati del Pontificio consiglio per l’Unità dei cristiani: padre Hyacinthe Destivelle, monsignor Andrea Palmieri e padre Milan Zust; padre Porfyrios decano di Balamand, rappresentante del Patriarca greco ortodosso di Antiochia Yuhanna, il Vescovo Andrej di Austria, delegato del Patriarca Irinej di Serbia, col fedele monaco Vassilj Grolimund, il Metropolita Serafim di Germania della Chiesa ortodossa romena, grande amico tanto fedele; il Metropolita Antonij dell’Europa centrale e occidentale e il Metropolita Dometian di Vidin del Patriarcato di Bulgaria; il Vescovo Grigorios della Chiesa ortodossa di Cipro e il Metropolita Ioannis di Thermopyli della Chiesa ortodossa di Grecia, la delegazione di Kalamàta, insieme ai monaci di Kardìtsa e ai professori di Atene e di Tessalonica; Melchìsedek, Vescovo di Pittsburgh, e Alexander, Vescovo di Toledo, della Orthodox Church of America, oltre a padre John Behr, decano dell’Istituto teologico St. Vladimir a New York. Grazie anche a padre Makaryan, rappresentante della Chiesa Apostolica Armena, al Vescovo Jonathan Goodall, rappresentante dell’Arcivescovo di Canterbury, al canonico Hugh Wybrew e a Michel Nseir delegato del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Ringrazio anche i membri del comitato scientifico, alcuni sono miei fratelli, mie sorelle, ma tra loro soprattutto, Michel Van Parys, Antonio Rigo, ed Hervè Legrand che ci offrono sapienza e discernimento. Ringrazio tutti i monaci d’Oriente e d’Occidente che sono qui. Noi monaci sentiamo sempre una comunione molto forte e la nostra vocazione straordinaria ci rende semplicemente poveri cristiani ma con il grande impegno di essere vigilanti e oranti per la Chiesa. Ringrazio gli interpreti e il tecnico di sala signor Panzìca e i suoi collaboratori. Tutti gli amici che fedelmente ritornano e accompagnano con la preghiera questi convegni.
E allora arrivederci all’anno prossimo. Intanto ancora una volta, con buona fedeltà dei miei fratelli e delle mie sorelle, sono usciti gli Atti del XXI Convegno: “Le età della vita spirituale”. Il tema del prossimo convegno lo sceglieremo in un prossimo comitato scientifico e le date le manteniamo, il prossimo anno saranno dal 9 al sabato 12 settembre. Il Signore davvero sia con voi adesso che ritornate alle vostre chiese, e non dimenticate che la nostra comunità vive una continua intercessione per ciascuna delle vostre chiese, d’Oriente e d’Occidente, chiedendo al Signore di affrettare il giorno in cui potremo celebrare un’unica eucarestia. Grazie a tutti. La nostra comunità vi ama e vi accompagna con la preghiera.

Per un'antropologia cristiana della pace

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
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PER UNA ANTROPOLOGIA CRISTIANA DELLA PACE

di Aristotle Papanikolaou

Nelle tradizioni ortodossa e cattolica, un’antropologia della pace è definita, molto semplicemente come théosis, deificazione o, come preferisco dire, quale comunione divino-umana. Tale comprensione della pace come théosis, tuttavia, può essere facilmente fraintesa nel senso di un’acquisizione di poteri fino a considerarsi una sorta di Zeus, poteri che consentirebbero di trascendere e trasformare i dissesti provocati dalla nostra finitezza. Anche tra i cristiani ortodossi la nozione di théosis è spesso applicata al monaco che ha poteri di divinazione o di guarigione, dando ancora una volta l’impressione che l’incarnazione della divina presenza sia manifestata soltanto in alcune condizioni di poteri sovraumani.

Se tuttavia ricordiamo il nome fondamentale di Dio per i cristiani, cioè che Dio è amore – cosa che tutti i cristiani condividono – allora la théosis stessa deve essere vista come capacità di amare come Dio ama, vedendo tutte le creature, anche quelle che sembrano meno amabili, così come Dio le vede. È questa la sfida del più grande comandamento: amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente e amare il prossimo come se stesso (cf. Mt 22,37-39). Quando è compresa nei termini del più grande comandamento, la théosis diventa più ordinaria, ironicamente più terrena, più evidente nelle banali, quotidiane attività della vita. Il più grande comandamento, comunque, è un paradosso: ci viene comandato di amare quando l’amore stesso non può prendere avvio dalla volontà. Non si può sicuramente volere che qualcuno ami uno che odia, ma soltanto far osservare che non ama come dovrebbe.

Leggi tutto: Per un'antropologia cristiana della paceI grandi spirituali delle tradizioni ortodosse e cattoliche comprendono la natura paradossale di questo comandamento; essi sanno che uno non può semplicemente voler amare come vuole non rubare o non dire menzogne. Nella misura in cui l’amore implica la volontà, l’amore stesso è anche affettivo, cioè coinvolge le nostre emozioni e i nostri desideri. In questo senso l’amore abbraccia la persona umana nella sua interezza, anima e corpo. Ciò che questi grandi spirituali capiscono inoltre è che l’amore è un apprendistato che richiede un esercizio per plasmare le nostre emozioni e i nostri desideri, e in questo modo, accresce la capacità della volontà di amare. L’esercizio comporta che si comprenda ciò che impedisce l’amore, ciò che fa entrare nella via dell’amare come ama Dio.

Uno degli ostacoli sulla via dell’amore identificato dagli spirituali è l’orgoglio. Gli spirituali comprendono bene che, a causa della nostra finitezza, gli esseri umani sono afflitti dal turbamento della paura. Siamo davvero terrorizzati dalla morte, ma questa paura della morte maschera un’altra paura che io credo più fondamentale ed è ciò che fonda il nostro orgoglio, è la paura di non avere una qualche importanza nel mondo. Il metropolita Ioannis Zizioulas esprime questo concetto con maggior eleganza come il desiderio di unicità e singolarità. La nostra paura di non aver importanza nel mondo ci porta ad affermare noi stessi in una modalità “divina”. Ciò che appare come amore di sé, orgoglio, in realtà è una forma di disprezzo di sé che quest’apparente amore di sé cerca di mascherare. E a causa di questo disprezzo di sé come amore di sé, cerchiamo di distruggere o negare chiunque o qualunque cosa minacci la nostra identità, minacci ciò che percepiamo come un aiuto a sentirci importanti. Questo tentativo di distruggere o negare l’altro che minaccia la nostra importanza si realizza nel confronto faccia a faccia con i genitori, i figli, gli amici, ma specialmente con lo straniero e il nemico. Lo vediamo anche a livello di gruppi; gli ortodossi stessi sono ben noti per quest’autoidentificazione negativa contro l’altro, specialmente nei confronti del cosiddetto “occidente”, la cui ultima forma è il tentativo di negare o distruggere il cosiddetto occidente ateo, antireligioso, liberale contrapponendogli i valori tradizionali e conservatori dell’ortodossia. Gli spirituali sanno bene che queste forme di affermazione dell’io, come forme di avversione di sé mascherate come amore di sé, sono radicate in sentimenti di paura, che alla fine conducono alla collera. Il sentimento della collera necessita di un oggetto e l’oggetto della collera di solito non è mai ciò per cui si prova collera; in verità la collera conduce all’oggettivazione, cosa che rende più facile trattare l’altro come un oggetto, non diverso da una pietra, rende facile distruggerlo con il martello di proiezioni arbitrarie. Lo si può vedere specialmente nei social media quando si proiettano in un semplice messaggio ogni sorta di significati che vengono impiegati per giustificare discorsi carichi di odio o di diffamazione o quando i teppisti si sentono autorizzati a far del male a qualcuno, normalmente non si chiedono se si sono comportati rettamente nei loro confronti. La sfida per imparare ad amare è apprendere a coltivare le nostre emozioni, i nostri desideri e, quindi, la nostra volontà in modo tale che avvertiamo di aver minor paura e collera nei confronti dei nostri genitori, figli, fratelli e sorelle, amici e, ancor più provocatoriamente, nei confronti dello straniero e del nemico.

Ci sono, comunque, altre condizioni nella vita che rendono difficile l’amore, che evocano sentimenti di paura e di collera ma non sono necessariamente sollecitati dall’avversione verso di sé come amore di sé. Una di tali condizioni è la violenza. La violenza che si abbatte su di noi o che noi commettiamo manda in frantumi un’antropologia della pace poiché rende difficile l’amore. Vorrei illustrare come la violenza ottiene questo effetto considerando tre particolari casi di violenza, due dei quali si riferiscono alla guerra e uno dei quali si riferisce a situazioni di povertà. Prima però vorrei definire un’antropologia della pace nei termini delle virtù, esaminando il modo in cui Massimo il Confessore comprende la vita spirituale come un apprendistato ad amare. Dopo aver descritto particolari condizioni di violenza, vorrei concludere ricordando come la comprensione che Massimo ha delle virtù può tanto illuminare quanto aiutarci a ricostruire un’antropologia della pace come accresciuta capacità di amare come Dio ama nell’esperienza e attraverso l’esperienza della violenza.

La pace della virtù

Negli scritti di Massimo il Confessore la comunione con Dio, che è una concreta presenza del divino, è simultanea con l’acquisizione della virtù. La virtù è una concreta théosis o deificazione. Come dice Massimo stesso nella sua seconda lettera, che è indirizzata a Giovanni: “E la divina e beata carità, che da queste facoltà e per mezzo di esse [con “esse” indica le virtù] viene creata, unisce a Dio e fa apparire colui che ama Dio”1. Nei suoi scritti ascetici Massimo analizza in particolare un percorso che va dalla manifestazione delle virtù attraverso pratiche ascetiche fino alla manifestazione della virtù delle virtù: l’amore. Per Massimo l’essere umano è creato per imparare ad amare ed è in lotta costante contro ciò che indebolisce la capacità d’amore.

La virtù, per Massimo, non è una costruzione del carattere fine a se stessa; non è uno stato in cui uno esibisce le proprie virtù come distintivi onorifici; non è semplicemente la base per una giusta decisione morale che fa mostra di sé all’interno di un particolare contesto. L’acquisizione delle virtù è la condizione preliminare per attivare l’umana capacità d’amore. Come dice Massimo nei suoi Capitoli sulla carità: “Tutte le virtù collaborano con la mente verso l’ardente amore divino”2. Massimo non si limita alle sole quattro virtù cardinali ma, in accordo con la tradizione patristica orientale, offre un più ampio catalogo delle virtù e dei vizi che corrisponde alle tre parti dell’anima: sensibile, irascibile e razionale. La chiave ermeneutica per la complessa descrizione della relazione tra virtù e vizi nella vita interiore dell’essere umano e nell’agire umano è “progredire nell’amore di Dio”3, che viene misurato in definitiva dal modo in cui ci si relaziona con gli altri, specialmente con quelli verso i quali proviamo ostilità o collera4. Come spiega Massimo: “Chi scorge nel proprio cuore traccia di odio verso qualsiasi uomo, per un qualsiasi errore, è completamente estraneo all’amore di Dio, poiché l’amore di Dio non tollera affatto l’odio per un uomo”5.

Se le virtù sono una concreta deificazione, il presupposto per apprendere la virtù delle virtù, che è l’amore, allora il vizio danneggia la capacità d’amare. Massimo spiega che “scopo della provvidenza divina è unire mediante la retta fede e la carità spirituale quelli che sono stati variamente divisi dal male”6. Scrivendo innanzitutto a monaci, aggiunge che “il male che ti separa dal fratello” include “invidiare o essere invidiato, danneggiare o essere danneggiato, disprezzare o essere disprezzato e i pensieri che nascono dal sospetto”7. Massimo è inoltre accorto nel riconoscere che il vizio produce vizio, cioè che non è semplicemente l’atto del vizio che nuoce alla capacità di amare, ma è “l’essere stretto dalla morsa del vizio”. “Le cose che mettono fine alla carità sono queste: ad esempio disonore, danno, calunnia o riguardo alla fede o riguardo ai costumi; percosse, ferite o simili, e ciò sia che capiti a te sia a qualcuno dei tuoi parenti o amici”8. I vizi producono e sono tali emozioni affettive quali la collera, l’odio, la paura. Attraverso i suoi scritti, Massimo sta cercando sia di dare consigli sia di esortare a una forma di addestramento che può superare ciò che sono, in definitiva, emozioni corrosive, comunque giustificate.

È significativa anche l’analisi di Massimo riguardo al rapporto delle immagini con la coltura dei vizi e delle virtù. Secondo Massimo, ciò che spesso suscita e sviluppa un vizio sono immagini o pensieri che si presentano all’essere umano. Massimo spiega che “carità e padronanza di sé conservano la mente immune da passione rispetto alle cose e alle loro idee … tutta la lotta del monaco contro i demoni è per allontanare le passioni dalle idee”9. Massimo ammonisce anche: “Quando ricevi violenza da parte di qualcuno o sei oltraggiato in qualche cosa, allora guardati dai pensieri dell’ira, perché questi, separandoti dalla carità con la tristezza, non ti pongano nella regione dell’odio”10. In relazione alle immagini che suscitano il vizio, questa resistenza non consiste nel rimuovere l’immagine, ma nel disattivare il suo potere di evocare tali sentimenti di collera o di ostilità. Essere virtuoso è sperimentare dinanzi alle immagini emozioni e desideri che coltivano relazioni autentiche.

Nella misura in cui la virtù è connessa all’amore, le virtù costruiscono relazioni di intimità, fiducia, compassione, empatia, amicizia, condivisione, premura, umiltà e onestà; cose tutte quello che sono apparentemente minacciate dall’esperienza del vizio che distrugge le relazioni. Secondo Massimo, l’acquisizione delle virtù è un apprendimento che si realizza in e attraverso determinate pratiche che formano sia il corpo sia la vita interiore (l’anima) dell’essere umano; la virtù è una struttura dell’io quale apertura all’amore.

La disgregazione della violenza

Nella prossima parte della mia esposizione, vorrei suggerire che la comprensione di Massimo della virtù è particolarmente importante per illuminare l’esperienza umana della violenza concentrandomi sull’esperienza della guerra e della povertà.

Oggi negli USA è molto usuale ascoltare storie di guerra di soldati che sono stati in Vietnam, in Afganistan o in Iraq e che soffrono a causa di Disordini da stress post-traumatico. È preoccupante sentire storie di guerra di reduci; raccontano che non possono dormire con le loro mogli per paura che un incubo possa portarli a ferire fisicamente la moglie; che non sono in grado di dormire durante la notte a causa di un eccesso di vigilanza; che non sono in grado di stare all’aperto per timore che un rumore, quello di un uccello che canta o dell’acqua che scorre, possa scatenare modalità di guerra; di non essere capaci di entrare in spazi pubblici, come supermercati o ascensori; di avere sogni di mutilare i figli di qualcuno, di alienarsi amici e famiglie, di non essere in grado di mantenere un lavoro o anche di perdere il lavoro per timore degli spazi pubblici. Molti di loro finiscono per diventare barboni sulle strade americane – il 13% dei barboni negli USA sono reduci di guerra e il 20% della popolazione maschile di barboni è costituita da reduci di guerra. Sono tormentati da immagini demoniache e ricordi della guerra. L’alto indice di esperienza di sintomi di Disturbi post-traumatici da stress (PTDS) tra i reduci del Vietnam dimostra che gli effetti della guerra permangono nel corpo a lungo dopo una missione di guerra. Secondo Jonathan Shay, uno dei pionieri negli USA nel trattare i reduci di guerra sofferenti di Disturbo post-traumatico da stress (PTSD), il perdurare di tale stato avviene nella forma di: un atteggiamento ostile o diffidente dinanzi al mondo; ritiro dalla società; sentimenti di vuoto o di disperazione; sentimento cronico di essere “al margine” come se si fosse costantemente minacciati; estraniamento11. Ci sono molte, molte storie e statistiche che potrei citare a questo proposito, ma mi limiterò alla storia raccontata al radioprogramma “This American Life” concernente la vicenda del reduce John che stava litigando con la sua fidanzata a proposito dell’orario degli autobus. La discussione si accese a tal punto che John andò in colera ed entrò in quello che, in ambito clinico, viene chiamato “stato di follia”12. John prese un coltello e colpì più volte la sua fidanzata. Quando si risvegliò in ospedale, non riusciva a ricordare quello che aveva fatto e la prima cosa che chiese fu: “Ho ucciso mia figlia?” Non aveva ucciso sua figlia13. Questa storia e molte altre simili a questa rivelano che c’è un’ascesi alla guerra: sia attraverso l’addestramento ricevuto nell’esercito sia attraverso gli atteggiamenti assunti durante la guerra per esercitare il corpo alla sopravvivenza dinanzi a costanti minacce di violenza, la guerra è l’annientamento della virtù nel senso che ha un impatto negativo sulla capacità di un reduce di guerra di riprendere i rapporti con la famiglia, gli amici e gli estranei14.Oltre al Disturbo post traumatico da stress (PTSD), sta emergendo una nuova categoria al fine di distinguere una determinata condizione che è il risultato della partecipazione dei veterani alla guerra e che non è più considerata identica al Disturbo post traumatico da stress (PTSD), anche se molti sintomi sono simili. Questa condizione è detta “ferita morale” e si distingue dal Disturbo post traumatico da stress (PTSD) nel senso che non è prodotta da una reazione di paura15. “La ferita morale” si riferisce a una condizione nella quale il reduce di guerra sperimenta la sensazione profonda che siano state violate le sue credenze morali fondamentali. Può derivare dall’aver ucciso persone armate o disarmate, dall’aver torturato prigionieri, abusato di corpi morti o di non essere riusciti a prevenire azioni del genere; può manifestarsi, anche se in realtà i reduci di guerra non avevano la possibilità di evitare simili azioni. Nell’esperienza della ferita morale i reduci di guerra possono giudicare se stessi indegni, incapaci di vivere con un’azione che essi o esse hanno compiuto e che non è mai un’azione che si può cancellare. I sintomi sono simili a quelli del Disturbo post traumatico da stress (PTSD): isolamento, sfiducia negli altri, depressione, dipendenza, distacco emotivo e valutazione negativa di se stessi. Ho sentito innumerevoli storie di reduci di guerra che ammettono di aver paura a parlare di tutto quello che hanno fatto in situazioni di combattimento per timore che la persona a cui ne parlano li giudichi o le giudichi indegni d’amore. In un recente articolo del The New Yorker intitolato “Il ritorno”, si citano le parole di un reduce dalla guerra in Iraq:

Non voglio raccontarle sconcezze [si riferisce alla moglie]… Non voglio che sappia che suo marito, la persona che ha sposato, ha gli incubi per aver ucciso della gente. Mi fa sentire un mostro … Finirà per odiarmi … Quale razza di persona ha sogni come questi?16.

Massimo dice spesso che l’amore di sé è il più grande ostacolo sul cammino dell’apprendimento dell’amore. Nel caso della ferita morale, l’ostacolo non è tanto l’amore di sé quanto il disprezzo di sé privato di ogni maschera d’orgoglio.

Gli effetti della violenza sull’essere umano sono anche chiaramente visibili nei quartieri poveri delle grandi città degli USA (e immagino che sia così in tutto il mondo), dove la minaccia della violenza è costante. Un adolescente che viveva in un quartiere povero di Chicago, infestato da bande violente, lo descriveva come una zona quotidiana di guerra17. A questo proposito, una delle più difficili questioni che devono affrontare gli educatori negli USA riguarda il modo con cui educare i bambini nei quartieri più poveri che regolarmente si comportano peggio a confronto dei bambini nei quartieri della classe media o benestante.

Tanto per fare un esempio, Paul Tough ha recentemente edito il libro How Children Succeed: Grit, Curiosity, and the Hidden Power of Character (Come i bambini hanno successo: coraggio, curiosità e il misterioso potere del carattere), nel quale riporta modi di affrontare questo problema che si focalizzano sul carattere, come il recente lavoro e gli studi dell’economista James Heckman, che ha ricevuto il premio Nobel; questi ha recentemente pubblicato The Myth of Achievement Tests: The GED [General Education Development] and the Role of Character in American Life18 (Il mito del risultato del test: il GED [Sviluppo dell’educazione generale] e il ruolo del carattere nella vita americana). Tough descrive come gli educatori per decenni si sono focalizzati a improvvisare quelle che venivano chiamate “abilità cognitive”, che hanno a che fare con cose quali la lettura e la matematica. Vi sono studi che hanno mostrato che le abilità correlate al successo, come diplomi di college o un lavoro ben retribuito, corrispondono a quelle che sono chiamate “abilità non-cognitive”19. È lo sviluppo di abilità non-cognitive che consente lo sviluppo di abilità cognitive. Secondo James Heckman, i tipi di abilità cognitive e di carattere che sono “cruciali per il successo nella vita economica e sociale … includono perseveranza (coraggio) … fiducia, attenzione, autostima ed efficienza, resistenza agli eventi avversi, apertura all’esperienza, empatia, umiltà, tolleranza di opinioni diverse e l’abilità di impegnarsi attivamente nella società”20. Heckman elenca anche l’autocontrollo, che include controllo degli impulsi, gestione della collera, accettazione del ritardo della gratificazione, o riflessione prima di attuare una cattiva decisione – cose che Robert Merrihew Adams chiama le virtù strutturali21 e che ci ricordano la lista delle virtù di Massimo il Confessore.

Ciò che essi hanno ancora scoperto è che lo stress risalente a esperienze avverse durante l’infanzia, come ad esempio l’esperienza della violenza o la minaccia della violenza, possono prevenire il pieno sviluppo di abilità non-cognitive. Tough riporta dati che indicano che il 51% dei bambini che hanno sperimentato quattro o più eventi avversi risultano avere problemi di apprendimento o di comportamento22. Un trauma, in particolare, può interferire con un sano sviluppo del cervello, con la capacità di prendere decisioni, con la memoria e il tipo di pensiero consequenziale, necessario per risolvere problemi23. Se un bambino sta sperimentando la costante minaccia della violenza a casa propria, lo stress che tale minaccia genera può impedire lo sviluppo di una parte del cervello responsabile di abilità non-cognitive. Un altro modo in cui tale stress veniva spiegato è questo: se, in una foresta, ci si trova di fronte a un orso, la parte del cervello responsabile dell’aggressione si attiverà, e quella parte del cervello responsabile di abilità non-cognitive si disattiverà allo scopo di predisporre la persona alla risposta a uno stato di emergenza. A mio avviso, questo getta una nuova luce sul racconto dell’episodio in cui Serafino di Sarov mangia con gli orsi nella foresta, ma una simile risposta a uno stato di emergenza, in ogni modo, è destinata a essere rara. Per alcuni bambini che vivono in una situazione familiare nella quale la minaccia di violenza è costante, il cervello risponde come se il bambino si trovasse quotidianamente dinanzi a un orso. Se la risposta a uno stato di emergenza del cervello viene attivata ripetutamente, il cervello inaugura vie che progressivamente diventano radicate. Nelle situazioni quotidiane questo significa che è difficile per questi bambini imparare la lettura e la matematica in classe quando il cervello si trova costantemente in una modalità di risposta a uno stato di emergenza. Non è inusuale che tali bambini abbiano a scuola problemi di comportamento che spesso si manifestano in accessi di collera. Janine Hron, che è l’amministratore delegato del Crittenton Children’s Center (Centro per i bambini Crittenton), che ha sviluppato l’Head Start Trauma Smart (Sofferenza traumatica a partire dalla testa ?) negli USA, amplia questo punto:

Bambini che vivono eventi cronici avversi significativi diventano ipervigilanti … Le loro emozioni li sommergono. Hanno difficoltà a dormire, difficoltà a stare attenti in classe, sono iperattivi e finiscono per essere gettati fuori dalla scuola. Il numero di persone che stanno sperimentando questi traumi è realmente epidemico24.

Essere circondati dalla violenza o sperimentarla direttamente può effettivamente plasmare il cervello in modo tale da creare vizi di paura e di collera (ancora una volta, non necessariamente segno di amore di sé, ma piuttosto di disprezzo di sé), due dei vizi che Massimo dice fanno giungere alla via dell’amore. Questi vizi, tra gli altri, vanno pregiudicando l’abilità di stare in quel genere di relazione che non dovrebbe semplicemente permettere all’amore di esistere, ma il genere di relazione che dovrebbe permettere di apprenderlo. Ciò che è realmente straordinario in tutto questo, almeno per me, è il nesso tra quello che tutti questi studi stanno mostrando con tutto quello che Massimo dice a proposito dell’interrelazione tra la manifestazione delle virtù e ciò che considera (?) come contemplazione.

Verso un’antropologia della pace

Se seguiamo Massimo il Confessore, allora l’antropologia della pace è un’antropologia che afferma la capacità umana di comunione con Dio. Il movimento verso tale comunione con Dio – la théosis – è identico all’umano apprendimento dell’amore, a vedere l’altro come Dio lo vede, perfino lo straniero e il nemico. L’imparare come amare avviene attraverso l’acquisizione delle virtù che vengono manifestate attraverso pratiche ascetiche. Si potrebbe certamente affermare che le violente disgregazioni che avvengono nel corso della storia umana sono radicate nelle disgregazioni dell’essere umano provocate in modo particolare dai vizi della paura, della collera e dell’odio. Tali paura e collera sono spesso il risultato della violenza provocata da ciascuno, inflitta da qualcuno o afflitta a qualcuno o a qualche gruppo dal quale ci si sente aggrediti. Tanti sono posseduti dalla paura fin dalla nascita, sono in collera con qualcuno e odiano qualcun altro che, a un certo punto della storia, è stato la fonte di qualche forma di violenza. In un circolo vizioso di paura, collera e odio, l’identità si radica e si rafforza contro quelli che sono stati causa di violenza per il proprio popolo. Un esempio tra tanti altri: sono passati almeno ottocento anni dalla quarta crociata e non è raro che un ortodosso covi ancora odio per questa storia.

La descrizione dell’antropologia della pace di Massimo in termini di virtù illumina come la violenza può provocare, come Jonathan Shay afferma, una “perdita di carattere” nel senso di rendere difficile l’amore. Diventa difficile di fronte al nemico che ha fatto violenza a una persona o un popolo, ma diventa difficile per il soldato che sta sperimentando un Disturbo post traumatico da stress (PTSD) o un’offesa morale, o per quello che vive in povertà che si trova costantemente di fronte alla minaccia della violenza o la sperimenta di continuo; nella misura in cui tali esperienze di violenza nella guerra e nella povertà rendono difficili le relazioni. Il soldato evita il ristorante e il bar; il povero inveisce contro la famiglia, gli amici e gli insegnanti.

Sebbene la descrizione delle virtù di Massimo possa illuminare gli effetti della violenza sull’essere umano in quanto reprime la loro capacità di amare, e perciò di théosis, può sembrare che le pratiche ascetiche che Massimo raccomanda possano aver poco da offrire per far fronte a tale violenza. Cosa che non sarebbe corretta.

Per esempio, in risposta al problema degli effetti della violenza sull’apprendimento, il programma dell’Head Start Trauma Smart ha degli studenti impegnati in pratiche quali esercizi di respirazione per aiutare a controllare la collera e rendere capaci di imparare, creando perfino delle “stelle di respirazione” [strumento per insegnare ai bambini la respirazione profonda per aiutarli a rilassarsi], mostrando che i metodi di disciplina tradizionali basati sulla paura, sulle punizioni fisiche, sono inefficaci. Il programma si dedica anche a formare la comunità che attornia bambini che vivono esperienze avverse, come le guide degli autobus e i camerieri dei caffè, per sviluppare una rete di risposte appropriate per il bambino; in altre parole l’esercizio nella virtù si spinge al di là del bambino, concentrandosi in special modo sulla perspicacia. Ricorrendo al sistema di Achenbach come strumento standard di valutazione, l’Heard Start Trauma Outcome Report indica che un bambino che è sottoposto a terapia mostra un miglioramento delle reazioni emotive, dell’ansietà, dei disturbi somatici, del ritiro, della privazione di sonno, della vigilanza sull’aggressività, dello stress e del comportamento provocatorio di opposizione25.

Ciò che è interessante negli studi citati nel libro di Paul Tough è che viene mostrato come un corretto attaccamento al genitore o ai genitori può aiutare il bambino a reggere lo stress generato da situazioni avverse26. In altre parole, lo sviluppo di relazioni corrette grazie alle virtù può reagire ai vizi creati dall’esperienza o dalla minaccia della violenza. Ciò che più da speranza è che queste abilità non cognitive possono essere apprese anche da adulti; in altre parole, l’essere umano è stato creato in modo tale che queste abilità non cognitive possono essere apprese a qualunque età.

Anche se vi erano numerose pratiche che permettevano l’acquisizione della virtù e perciò la capacità di relazioni di fiducia, intimità, profondità e amore, mi limiterò a un fatto che è una chiave per ogni ripristino della virtù sia nella letteratura psicologica sia in quella ascetico-mistica: la pratica del narrare la verità o della confessione. Tanto Jonathan Shay quanto Judith Herman, nella loro esperienza con le vittime del trauma, testimoniano la fondamentale verità che la guarigione non può avvenire prima che la vittima del trauma possa cominciare a parlare degli eventi traumatici. Raccontare la verità per se stessa non è sufficiente per la guarigione, ma è assolutamente necessario. Così la narrazione della verità del trauma non può cominciare prima che per la vittima sia stato costruito un ambiente sicuro e protetto, cosa che Herman definisce come fase di recupero27. Dire la verità riguardo al trauma della guerra può essere interpretato come una concretizzazione della virtù dell’umiltà, nel senso che rendersi vulnerabile è un requisito per aprirsi all’amore e all’essere amati. Il monaco cristiano del vi secolo, Doroteo di Gaza, paragona la vita cristiana alla costruzione di una casa:

Il tetto è l’amore, che è il compimento delle virtù così come il tetto lo è della casa. Poi, dopo il tetto, vi è il parapetto della terrazza ... Il parapetto è l’umiltà, perché corona e custodisce tutte le virtù. E come ogni virtù deve essere accompagnata dall’umiltà – come abbiamo detto che ogni pietra deve poggiare sul fango – così anche la perfezione della virtù ha bisogno dell’umiltà28.

La ricostruzione della narrazione deve avvenire in un contesto in cui vi siano altre persone, in una forma di comunità. Shay afferma che

guarire da un trauma dipende dalla condivisione del trauma: essere capaci di raccontare al sicuro la storia a qualcuno che ascolta e di cui ci si può fidare che la riferirà fedelmente agli altri nella comunità”29.

Riuscire a mitigare il potere demoniaco dipende dalla verità, anche se tale verità ha a che fare con l’esperienza del demoniaco, e questa verità ha bisogno di essere “condivisa”, detta e ascoltata da altri. Nel corso degli anni, Shay ha riscoperto che tale condivisione è più efficace quando la comunità stessa è costituita da quanti conoscono, direttamente o indirettamente, gli effetti del trauma della lotta. Più o meno come avviene tra gli alcolisti anonimi, il potere di guarigione della narrazione della verità non dipende semplicemente dal dire la verità, ma da chi l’ascolta30. L’effetto di rimbalzo della narrazione della verità dipende dal significato simbolico-iconico del fatto che qualcuno ascolta. Voglio dire chiaramente che quando raccomando la pratica ascetica della narrazione della verità, non sto presentando una ricetta: “dire la verità ed essere guarito”. La parola di verità detta in Gesù rende possibile una nuova relazione di intimità tra l’increato e il creato, la pratica ascetica della narrazione della verità ha il potere di formare un nuova via di relazioni di intimità e di fiducia anche per quelli che hanno sperimentato la violenza e la sofferenza da Disturbo postraumatico da stress (PTSD).

La narrazione della verità sarà particolarmente importante per elaborare il perdono che è esso stesso una manifestazione della virtù dell’amore, ma al cuore dell’offesa e attraverso l’offesa o il peccato, che spesso assumono la forma della violenza. È stato mostrato che per queste sofferenze dovute a offesa morale, parlarne o mettere a nudo ciò che affligge l’uno o l’altra, benché necessario, non è efficace allo stesso modo in cui può essere per quelli che soffrono di Disturbo post-traumatico da stress (PTSD). È chiaro che quelli che sono afflitti dalla disgregazione dell’offesa morale sono tentati in qualche forma di auto-perdonarsi.

Nel caso dell’offesa morale, e in molti altri esempi di violenza e di malvagità, il perdono si rivela non come un contratto – confesso semplicemente il mio peccato e Dio è obbligato a perdonare; questo non può essere preteso, né è oblio del male o della violenza. Perdonare è una condizione in cui si risponde diversamente al ricordo del peccato o della violenza. Non si può voler perdonare; si diventa perdono e questo diventare perdono si traduce in una relazione che non dimentica, nega o anche va al di là del male che c’è stato, ma una relazione che persiste al cuore del male e come effetto di tale male. Più ancora il perdono porta a un’intimità nella e attraverso la violenza o il peccato commesso, che normalmente sarebbe considerata impensabile.

L’amore che appare dopo l’esperienza della violenza, non lascia alle spalle questa violenza. Nel ricostruire ciò che della virtù è stato distrutto a causa della violenza, l’imparare ad amare da parte dell’essere umano non significa dimenticare o cancellare la violenza sperimentata; non significa neppure andare al di là dell’esperienza della violenza; è sempre un muoversi dentro e con l’esperienza della violenza, specialmente dal momento in cui qualsiasi forma assuma l’amore, avrà qualcosa a che fare con la violenza sperimentata. Come afferma in modo così eloquente la teologa anglicana Marylin McCord Adams: “Per superare la partecipazione all’orrore dentro alla vita della persona creata, Dio deve introdurla dentro la costruzione di quell’intima, individuale … beatifica personale relazione con Dio”31.

La speranza cristiana che sto illustrando afferma che la disgregazione attuata dalla violenza non rende impossibile l’amore, per quanto qualunque specie di amore non possa cancellare quello che è stato fatto. La violenza affermata come parte della narrazione propria di qualcuno è per sempre costitutiva di tale narrazione, anche se la tale narrazione non può essere ridotta a quell’esperienza di violenza. Il male o la violenza non sono necessari per amare, ma l’amore non è necessariamente una negazione dell’esperienza del male o della violenza. Si muove dentro, attraverso e con tali esperienze contrarie come se non permettesse alle nostre storie individuali e alla storia della creazione di essere ridotte a tali esperienze. Amore come perdono non si riferisce a una frontiera “al di là” di esperienze contrarie, come la violenza, ma a “un di più” in un certo senso costituito da tali esperienze ma non riducibile ad esse. Questo punto è importante di fronte a quelli che potrebbero sostenere che, alla luce del fatto che perdita e, quindi, lutto sono costitutivi dell’io, della nostra identità, che non c’è e non può esserci una cosa come l’amore. Un’antropologia della pace come amore, come perdono, come virtù è un duro lavoro; l’amore lo si impara, ma per il cristiano deve essere un apprendimento guidato dalla speranza che “né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né potenze, né altezza né profondità, né alcun altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,38-39).

1 Massimo il Confessore, Lettera sulla carità, a cura di L. Cremaschi, Magnano 1994, p. 15.

2 Id., Capitoli sulla carità 1,11, a cura di A. Ceresa Gastaldo, Roma 1963, p. 53.

3  Ibid. 2,14, p. 97.

4  Ibid. 1,71, p. 77.

5 Ibid., 1,15, 55.

6 Ibid. 4,18, p. 201.

7  Ibid. 4,19.21, pp. 201-203.

8 Ibid. 4,81, p. 231.

9 Ibid. 3,39.41, p. 163.

10 Ibid. 1,29, p. 59.

11 Cf. J. Shay, Achilles in Vietnam: Combat Trauma and the Undoing of Character, New York 1994, p. 169. Si veda anche: Id., Odysseus in America: Combat Trauma and the Trials of Homecoming, New York 2002. Sul trauma si veda anche il saggio classico di J. Herman, Trauma and Recovery: The Aftermath of Violence from Domestic Abuse to Political Terror, New York 1992.

12 Per una definizione dello “stato di follia” si veda J. Shay, Achilles in Vietnam, p. 80. In una brillante analisi dell’Iliade, Shay dimostra come Achille divenne pazzo furioso dopo la morte del suo amico Patroclo.

13 http://www.thisamericanlife.org/radio-archives/episode/59/life-after-death.

14 Per l’ascesi di guerra si veda: Lt. Col. D. Grossman, On Killing: The Psychological Cost of Learning to Kill in War and Society, New York; R. M. MacNair, Perpetration-Induced Traumatic Stress: The Psychological Consequences of Killing, Westport, CT 2002.

15 Sulla “ferita morale” si veda B. T. Litz et al., “Moral Injury and Moral Repair in War Veterans: A Preliminary Model and Intervention Strategy”, in Clinical Psychology Review 29 (2009), pp. 695-706; S. Maguen et al., “The Impact of Reported Direct and Indirect Killing on Mental Health Symptoms in Iraq War Veterans”, in Journal of Traumatic Stress 23 (2010), pp. 86-90; S. Maguen et al., “Killing in Combat, Mental Health Symptoms, and Suicidal Ideation in Iraq War Veterans”, in Journal of Anxiety Disorders 5 (2011), pp. 563-567; K. Drescher et al., “An Exploration of the Viability and Usefulness of the Construct of Moral Injury in War Veterans”, in Traumatology 17/1 (2011), pp. 8-13. Per considerazioni teologiche si veda W. Kinghorn, “Combat Trauma and Moral Fragmentation: A Theological Account of Moral Injury”, in Journal of the Society of Christian Ethics 32/2 (2012), pp. 57-74; R. Nakashima Brock e G. Lettini, Soul Repair: Recovering from Moral Injury after War, Boston 2012.

16 D. Finkel, “The Return: The traumatized veterans of Iraq and Afghanistan”, in The New Yorker, 9 settembre 2013, p. 36.

17 Cf. L. Jones e L. Newman, Our America: Life and Death on the South Side of Chicago, New York 1998, p. 170.

18 Cf. The Myth of Achievement Tests: The GED and the Role of Character in American Life, a cura di J. J. Heckman, J. E. Humphries e T. Kautz, Chicago 2014.

19 Ibid., p. 341. Si veda anche: P. Tough, How Children Succeed: Grit, Curiosity, and the Hidden Power of Character, New York 2012, XIX, pp. 148-175.

20 Ibid., p. 342.

21 R. Merrihew Adams, A Theory of Virtue: Excellence in Being for the Good, Oxford 2006, p. 37.

22 Cf. P. Tough, How Children Succeed, pp. 1-48, specialmente p. 17. Si veda anche N. J. Burke et al., “The Impact of Adverse Childhood Experiences on an Urban Pediatric Population”, in Child Abuse and Neglect 35/6 (June 2011), pp. 408-413. Cf. anche “The Adverse Childhood Experiences Study”, www.acestudy.org, ultimo accesso 15 maggio 2014.

23 Cf. P. Tough, “Teaching Children to Calm Themselves”, in The New York Times, 20 March 2014.

24 Ibid. Si veda anche S. P. Walker et al., “Inequality in early childhood: risk and protective factors for eatrly child development”, in The Lancet 378 (9799), pp. 1325-1338, specialmente . 1331 e S. P. Walker et al., “Child development: risk factors for adverse outcomes in developing countries”, in The Lancet 369 (9556), pp. 145-157, specialmente p. 152.

25 Ibid. Per i dati completi si veda l’Head Start Trauma Report 2013 http://www.saintlukeshealthsystem.org/head-start-trauma-smart (ultimo accesso 7 aprile 2014.

26 Cf. P. Tough, How Children succeed, pp. 31-48.

27 Cf. J. Shay, Odysseus in America, p. 168. Shay sta prendendo le distanze da Herman, Trauma and Recovery, New York 1992.

28 Doroteo di Gaza, Insegnamenti 14,151, in Id., Comunione con Dio e con gli uomini, a cura di L. Cremaschi, Magnano 2015, p. In precedenza Doroteo identifica l’umiltà al fango della casa dell’anima. “Il fango è l’umiltà perché viene dalla terra ed è sotto i piedi di tutti. Ogni virtù senza umiltà non è una virtù” (Ibid.).

29 Ibid., p. 4.

30 Sulla narrazione della verità negli alcolisti anonimi si veda A. Papanikolau, “Liberating eros: Confession and Desire”.

31 M. McCord Adams, Christ and the Horrors, Cambridge 2006, p. 47.

Francesco di Assisi, un testimone della pace

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

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FRANCESCO DI ASSISI: UN TESTIMONE DELLA PACE

di Panaghiotis Aristomenis Yfantis

1. Introduzione

Per introdurre il tema che mi è stato richiesto di trattare nell’ambito del presente convegno, vorrei accennare brevemente a quali potrebbero essere gli elementi fondamentali di una sua trattazione convenzionale. Una trattazione convenzionale di questo tema metterebbe in risalto come Francesco di Assisi (1181/2-1224) sia stato un ardente e instancabile araldo della pace, della rinuncia ai conflitti e del rifiuto della violenza, tanto da poter essere universalmente riconosciuto (e variamente strumentalizzato) come un precursore dei movimenti pacifisti contemporanei e delle varie forme di solidarietà sociale. Una trattazione più spirituale, ma ugualmente convenzionale, della pace francescana, mostrerebbe poi come Francesco avesse acquisito presto uno stato di pace interiore [1], cioè una forma d’imperturbabilità o impassibilità spirituale, che da una parte lo preservava o lo distoglieva dal coinvolgimento nelle vicende sociali e dall’altra gli consentiva di trovarsi in una comunione stabile e costante con le realtà celesti, essendo ormai diventato superiore o indifferente rispetto a quelle umane.

Il carattere convenzionale di questi due modi di trattare il tema consiste negli stereotipi che sono frutto dei principali approcci ermeneutici a Francesco, tra loro quasi contradditori: da un lato, quelli che cercano di strapparlo all’ambito del suo impegno ecclesiale rappresentandolo come un campione della lotta sociale o un ingenuo “trovatore” che canta la primavera dei sensi e delle passioni del Rinascimento umanistico, nel bel mezzo dell’inverno del Medioevo; e dall’altro lato, ci sono gli stereotipi che favoriscono e riproducono un’interpretazione statica della santità, talmente lontana dal realismo biblico e dal dinamismo relazionale della lotta spirituale da ignorare la vita reale o semplicemente da superarla con pii quanto inconsistenti surrogati.

Leggi tutto: Francesco di Assisi, un testimone della paceNel seguito dunque cercheremo di tratteggiare la presenza e la testimonianza di pace di Francesco attraverso specifiche tappe e scelte, che presuppongono altrettanti dilemmi o stadi della lotta spirituale. Come dimostrano le primitive fonti francescane [2], il santo di Assisi era un fedele osservante del vangelo poiché sapeva prima di tutto che la pace autenticamente cristocentrica presuppone quella “violenza” indispensabile e parimenti cristocentrica che è richiesta per entrare nel regno di Dio [3].

2. L’epoca, il temperamento e la conversione

Restando dunque fedeli alle fonti francescane e rispettando il contesto storico e anche la realtà di un uomo del XIII secolo, vale la pena prima di tutto notare che l’epoca in cui visse Francesco fu segnata da tensioni a tutti i livelli della vita politica, sociale, ecclesiale e spirituale. Nel seguito faremo riferimento a questi aspetti, allo scopo di inquadrare nel contesto storico appropriato l’esperienza di Francesco e il suo attivo coinvolgimento nelle vicende del tempo.

Francesco, come è stato affermato con argomenti convincenti, basati sugli eventi che segnano la sua vita giovanile, aveva un temperamento piuttosto impulsivo, “violento”, un “temperamento di un combattente” [4], che egli fino al momento cruciale della conversione dimostrava nei campi di battaglia: all’inizio, nel 1198 e nel 1199, nell’insurrezione sociale dei borghesi della sua città contro i feudatari locali e nella lotta civile che seguì – ricordiamo che egli, in quanto figlio di un ricco borghese, apparteneva alla classe media in ascesa – e poco più tardi, tra il 1202 e il 1209, nel conflitto tra Assisi e Perugia, doveva avevano trovato rifugio i nobili della sua città. In particolare, questo conflitto costerà al giovane cavaliere coraggioso e ambizioso l’esperienza della prigionia. Sfinito e abbattuto, intraprenderà una nuova spedizione militare, questa volta in Puglia, la quale tuttavia non andrà in porto, perché, come scrivono le fonti, una voce lo fermò a Spoleto, come un segno precorritore dell’imminente conversione [5].

La combattività e l’impulsività del carattere di Francesco, insieme alla sua indole estroversa e comunicativa e al suo coraggio [6], non scompariranno né diminuiranno dopo la sua conversione. Del resto, come sottolineano i maestri dell’antropologia ascetica, il pentimento e la vita spirituale non sradicano le passioni, poiché questo significherebbe una mutilazione psicologica ed esistenziale. Semplicemente, il pentimento riorienta la potenza che alimenta le passioni verso la pratica delle virtù. Ciò è confermato anche dal momento cruciale della conversione di Francesco. Come egli stesso confessa nel suo Testamento, il suo pentimento è legato a un drammatico atto di riconciliazione e presuppone anche un impressionante superamento di sé, ovvero una vittoria nella lotta che Francesco raggiunse non solo lasciandosi dietro la sua precedente vita di peccato ma anche la sua radicata avversione nei confronti dei lebbrosi, i quali al suo tempo non erano soltanto una minaccia ma erano anche caricati di un indelebile stigma sociale. Leggiamo: “Il Signore così diede a me frate Francesco di cominciare a far penitenza: essendo nei peccati, troppo mi sembrava amaro vedere dei lebbrosi, [2]. E lo stesso Signore mi condusse tra loro e feci loro misericordia. [3] E allontanandomi da loro, ciò che mi era sembrato amaro mi si trasformò in dolcezza nell’anima e nel corpo” [7]. Nello stesso passo l’attiva presenza di Cristo nell’evento della conversione già adombra il contenuto biblico della pace; ma su questo torneremo più tardi, focalizzando la nostra attenzione su altri passi dei suoi Scritti.

3. Rottura familiare, tensioni ecclesiali e abbandono alla volontà di Dio

Rimanendo nello stesso periodo della vita di Francesco, cioè negli anni critici delle sue scelte fondamentali, troviamo di nuovo la violenza interiore per l’acquisizione dell’altra pace. Pregando di fronte al Crocifisso di San Damiano, nei dintorni di Assisi, Francesco riceverà da Cristo il comando di ricostruire la sua Chiesa che rischia di andare in rovina [8]. Francesco inizialmente accoglie il comando in modo letterale e comincia a ricostruire le chiesette abbandonate della zona. Il padre di Francesco sarà infastidito dal comportamento di suo figlio, che egli ha predestinato come successore nell’impresa familiare, e la rottura definitiva non tarderà. Francesco si denuderà davanti al vescovo di Assisi, rinnegando qualunque legame con il padre naturale e abbandonandosi nelle mani di quello celeste. I lettori della narrazione biografica di solito si fermano alla drammaticità quasi teatrale della scena, che culmina nel gesto ugualmente toccante del vescovo che ricopre il corpo nudo di Francesco con il suo manto, quasi anticipando la relazione che la Chiesa avrà con il santo. Tuttavia, dietro a tale drammaticità, emergono clamorosamente la risolutezza e la violenza dell’uomo che rivendica e proclama la propria parentela con Cristo [9]. E qui la scelta spirituale ha un carattere violento e combattivo, che conduce in modo doloroso alla pace interiore: attraverso la sua volontaria ricerca della condizione di orfano e la simbolica uccisione del padre, Francesco si abbandona alla divina volontà e al riparo della “Madre Chiesa” [10].

Il significato simbolico della frase rivoltagli personalmente dal Crocifisso di San Damiano, associato ai brani biblici sulla vita apostolica che ascoltava durante la divina liturgia, condurranno Francesco alla scelta forse più importante della sua vita: la fondazione di una comunità , la quale fino quasi alla fine della sua vita avrebbe costituito lo spazio per eccellenza dove ricercare e ottenere la pace. Ciò nonostante, anche questa decisione presupponeva una scelta difficile e anche una determinazione, che Francesco difese con forza e risolutezza ignorando i pericoli. È l’epoca in cui la Chiesa istituzionale in occidente guarda con diffidenza ogni nuovo tentativo di vita comunitaria, a causa dei vari movimenti laicali che, con il pretesto di un ritorno all’ethos evangelico e dell’insufficienza o indifferenza del clero, arrivavano al punto di negare il valore dei sacramenti e la struttura gerarchica del corpo ecclesiale. I biografi di Francesco fanno riferimento ai sintomi di un clero che vive nell’inerzia, ma anche all’incapacità del monachesimo tradizionale dell’epoca nel corrispondere alla sua missione. Sapendo che l’oriente segue il momento più buio della notte, essi presentano con accenti drammatici questo paesaggio cupo che in molti fa da prologo alla presenza spirituale del protagonista della biografia, e che certamente a suo modo ha plasmato il modo in cui egli ha inteso e vissuto la pace. Scrive in proposito Celano, che Francesco “guardava con preoccupazione il vecchio mondo imbrattato (cf. Ap 22,11) nel sudiciume dei vizi, gli ordini (sacri) insensibili agli esempi degli apostoli e, mentre la notte dei peccati era a metà del suo corso (cf. Sap 18,14-15), era imposto il silenzio alle sacre discipline; quand'ecco, all'improvviso, emerse sulla terra un uomo nuovo (cf. Ef 4,24), e all'apparire subitaneo di un nuovo esercito, i popoli furono ripieni di stupore davanti ai segni (cf. Mc 16,20) della rinnovata età apostolica. È ora d'un tratto portata alla luce (cf. Gb 9,11) la perfezione già sepolta della Chiesa primitiva, di cui il mondo leggeva sì le meraviglie, ma non vedeva l'esempio. Perché dunque non si potrà dire che gli ultimi saranno i primi (cf. Mt 19,30), quando ormai si sono, mirabilmente, trasformati i cuori dei padri nei figli, e quelli dei figli nei padri? O si potrà forse misconoscere il compito così celebre e famoso dei due Ordini, e non ritenerlo come presagio di qualcosa di grande che debba accadere tra breve? Di fatto, dal tempo degli apostoli non fu mai proposto al mondo insegnamento così autorevole, così mirabile” [11].

La parentela tra la religio novella dei Frati minori e gli altri movimenti laicali dei predicatori itineranti (tra di essi i Valdesi, gli Umili e anche i Catari) può essere individuata nella richiesta comune di “risveglio evangelico” [12]; tuttavia la loro differenza più importante, che mostra la determinatezza e l’ardire di Francesco, e che è direttamente connessa con il nostro tema, è la sua irremovibile decisione di restare fedele alla Chiesa e di rifondarla dall’interno con la predicazione della penitenza e l’esempio personale [13], evitando la tentazione di sostituirla. Infatti, anche se lottò per conservare il carattere laicale del suo movimento, rifiutando così di sottomettersi a una delle tre regole del monachesimo tradizionale, secondo le esplicite decisioni del Concilio Lateranense IV (1215) [14], volle ricevere l’approvazione pontificia della “forma di vita” (forma vitae) dei Minori. Francesco era sicuro che, nonostante la giustificata diffidenza e l’ostilità della gerarchia, lui e i suoi frati portavano un’altra testimonianza di pace e di unità, dimenticata ma durevole. Un cronachista dell’epoca commenta in proposito: “Però, se osserviamo attentamente la maniera di vivere della Chiesa primitiva, dobbiamo concludere che non tanto  aggiunse una nuova Regola, quanto piuttosto rinnovò quella antica, rialzò quella che giaceva per terra, e ravvivò la religione che era quasi morta, in questa sera del mondo avviato al tramonto, mentre urge il tempo del figlio della perdizione. Ed ha così preparato nuovi atleti per lo scontro con i tempi dell’Anticristo pieni di pericoli, premunendo e rafforzando la sua Chiesa” [15].

4. La pace cristocentrica come riconciliazione tra cielo e terra e le fondamentali scelte bibliche e sociali

Ancora negli Scritti di Francesco si può constatare come la pace per lui non sia la negazione della violenza e l’assenza di guerra, cioè un bene impersonale e astratto. Al contrario, essa ha una chiara base cristocentrica, che affonda le sue radici nell’opera salvifica del Dio-Uomo, la quale si ripete nella divina eucaristia – che costituiva il centro della vita comune della comunità dei frati. Nella sua Lettera all’ordine scrive, citando la Lettera agli Efesini: “Pertanto, scongiuro tutti voi, fratelli, baciandovi i piedi e con tutto l'amore di cui sono capace, che prestiate, per quanto potete, tutta la riverenza e tutto l'onore al santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo, nel quale tutte le cose che sono in cielo e in terra sono state pacificate e riconciliate [16] a Dio onnipotente” [17]. E in un’altra sua lettera, questa volta ai fedeli, sembra incapace di esprimere la sua riconoscenza per la pace e l’unità che Cristo ha inaugurato con il proprio sacrificio [18] e per le quali egli ha pregato il comune Padre celeste [19]: “Oh, come è santo e come è caro, piacevole, umile, pacifico, dolce, amabile e desiderabile sopra ogni cosa avere un tale fratello e un tale figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, il quale offrì la sua vita per le sue pecore, e pregò il Padre dicendo: "Padre santo, custodiscili nel tuo nome, coloro che mi hai dato nel mondo; erano tuoi e tu li hai dati a me[20].

Francesco intende la pace innanzitutto in modo biblico: si tratta della riconciliazione tra Dio e l’uomo, tra cielo e terra, tra il di qui e l’al di là, tra l’adesso e il sempre, che Cristo ha inaugurato con la sua incarnazione. Anzi, nella seconda versione della Lettera ai fedeli, Francesco colloca la pace che viene dal cielo tra il rispettoso ossequio e la carità [21]. Il klimax è evidente: il timore di Dio e l’osservanza dei suoi comandamenti generano la “vera pace” come riconciliazione con il Creatore, per dare frutto in opere di carità.

Francesco evidenziò il cristocentrismo che attribuiva al contenuto e ai frutti della pace con la sua esplicita confessione che lo stesso Cristo gli rivelò il saluto di pace [22], che tanto sorprese i suoi contemporanei, e il contenuto della sua predicazione, su cui ritorneremo fra poco.

Su questo canovaccio biblico s’inquadrano agevolmente e si comprendono pienamente le evidenti connotazioni sociali del messaggio francescano della pace.

La scelta del nome del movimento francescano [23] può rimandare ai “fratelli più piccoli” della parabola biblica [24], ma è anche un’evidente riferimento ai minores dell’epoca, cioè a coloro che erano economicamente deboli, che insieme ai lebbrosi e agli emarginati rendevano sensibili agli occhi di Francesco gli aspetti sociali del Gesù storico [25], e per questo egli li amava, si prendeva cura di loro e si sforzava di farsi loro simile. Parimenti biblica e allo stesso tempo sociale è la demonizzazione del denaro [26] e la difesa della povertà e della rinuncia a qualunque preoccupazione materiale [27]. Quando il vescovo di Assisi notò che la vita dei Minori era oltremodo dura a causa della povertà, Francesco gli rispose con franchezza ma anche in modo fedele alla Bibbia: “Messere, se avessimo dei beni, dovremmo disporre anche di armi per difenderci. È dalla ricchezza che provengono questioni e liti, e così viene impedito in molte maniere tanto l'amore di Dio quanto l'amore del prossimo” [28].

5. La pace come impresa ascetica

Nell’Ufficio della Passione del Signore che Francesco compose mettendo insieme diversi versetti biblici, ripeterà che la pace è e resta un dono celeste, e tuttavia la sua accoglienza e la sua messa a frutto presuppongono la “buona volontà”, cioè la libertà dell’uomo [29]. Questo brano a cui ci riferiamo collega da una parte l’elemento biblico, il dono della pace, con l’elemento ascetico, la sua accoglienza da parte dell’uomo, che ci occuperà in questa sezione.

Infatti, per quanto la riconciliazione tra Dio e l’uomo sia stata realizzata “una volta per tutte” (hapax) nell’evento Cristo, la sua assimilazione determina per ogni fedele una lotta di tutta la vita, per accordare la propria volontà con il disegno eterno di Dio per la salvezza e il riconoscimento della verità [30], di quella verità che libera [31] e riporta la persona umana al suo originario splendore teandrico. Francesco con ogni probabilità non conosceva la frase di Crisostomo che dice che la mentalità carnale è inimicizia con Dio [32], e tuttavia con la sua vita manifesta l’aspetto opposto, che cioè la pace con Dio e anche la riconciliazione con la propria identità cristocentrica interiore si ottiene con l’automortificazione ascetica [33], con la purificazione e con la conseguente pratica delle virtù.

E qui l’acquisizione della pace in Cristo come amicizia con Dio, e per estensione con se stessi e con il prossimo, presuppone uno spirito di lotta e una tenacia, alquanto inadeguate rispetto a una comprensione mondana o antropocentrica della pace come assenza di guerra, o anche alla rappresentazione romantica stereotipata di Francesco come un ingenuo “trovatore”. Raffigurando concretamente la sua relazione organica con la lunga tradizione ascetica della Chiesa indivisa, Francesco organizza una forma di vita basata appunto sull’autobnegazione [34], ovvero sulla sottomissione dell’io, delle passioni della gola, dell’avidità, dell’ambizione e dell’amore del potere e, ovviamente, sulla lotta contro le tentazioni carnali, la quale giunge fino all’odio del corpo per il bene dell’anima [35]. Non è un caso che la prima Regola che Francesco sottopose per l’approvazione a Roma sia stata respinta a motivo della sua durezza.

Le primitive fonti francescane fanno ampiamente riferimento alle costanti ascetiche che contribuivano a plasmare la fisionomia spirituale dello stesso Francesco e dei suoi primi discepoli, e mostrano come egli avesse chiara coscienza che la pace che egli perseguiva passava attraverso la fornace della lotta spirituale contro la carne amica del peccato, contro i demoni e contro il mondo. Secondo il racconto dei biografi di Francesco, tutti i primi frati indistintamente si dedicavano a una dura ascesi e osservavano digiuni estenuanti e continui [36], mentre lo stesso Francesco – che aveva l’abitudine di chiamare il suo corpo “frate asino” – di fronte a un violento assalto delle tentazioni carnali, fu costretto a immergersi tutto nudo nella neve, per domarlo [37] (tra parentesi, esattemente nello stesso modo affrontò il demone della fornicazione uno dei pionieri dell’esperienza ascetica orientale, come ci informa Palladio nella Storia lausiaca [38]).

Possiamo rintracciare un’elementare fondazione teorica di queste esperienze di Francesco nei suoi stessi Scritti. Nella sua Regola non bollata, utilizzando lo schema antitetico a lui caro tra corpo e anima fa riferimento alla necessità “di disprezzare e mortificare la carne e di ricercare l’umiltà e la pazienza e la pura e semplice e vera pace dello spirito”, che culminano nel “divino timore, nella divina sapienza e nel divino amore del Padre, del Figlio e dello Spirito santo” [39]. Nella stessa direzione si muovono anche i suoi riferimenti espliciti alla beatitudine biblica dei “pacifici”. Francesco sottolinea che “sono veri pacifici coloro che in tutte le contrarietà che sopportano in questo mondo, per l’amore del Signore nostro Gesù Cristo, conservano la pace nell’anima e nel corpo” [40]. In una sua altra Ammonizione, identifica la pace con la pazienza e l’umiltà che deve dimostrare il frate che lotta nell’ora della prova, delle tentazioni o della sua infermità [41], mentre deve dimostrare un sostegno senza mormorazioni nell’ora difficile vissuta dal fratello [42]. Per il vero asceta, la conferma della sua maturità spirituale e della sua pace interiore avviene attraverso le prove, e non solo sul piano individuale ma anche nella sua relazione con il prossimo. In molti passi degli Scritti, dove Francesco descrive le relazioni tra i frati, insiste sulla necessità di evitare le contese e le liti [43] e di perseguire costantemente la carità [44], la tolleranza [45], la solidarietà [46] e la compassione [47].

Tutte queste esortazioni potrebbero essere considerate alla stregua di un moralismo convenzionale o di un autonomo codice di comportamento. E tuttavia, l’ethos ‘agonistico’ di Francesco rimane autentico perché, senza mai diminuire il valore dell’ascesi, non arriva mai ad assolutizzare le opere ascetiche, e perché con la sua posizione equilibrata insegna che l’ascesi è un mezzo prezioso, ma non può competere né sostituire la meta che è l’amore sacrificale, il superamento dell’individualismo, l’umiltà, in una parola la “pace in Cristo”. In uno degli episodi più commoventi conservati dalle fonti primitive, un frate durante la notte cominciò a gridare: “Muoio, fratelli miei, muoio di fame!”. Francesco chiese subito che si apparecchiasse la tavola e, interrompendo il suo austero digiuno, cominciò lui stesso a mangiare e anzi invitò a questo “dovere di carità” anche gli altri frati, perché il loro fratello affamato non provasse vergogna [48]. L’autenticità di una tale pace, che è forgiata attraverso la trasformazione ascetica del fedele, è attestata anche dall’insistenza di Francesco sull’umiltà, la virtù somma che sola può domare il narcisismo spirituale, che tende sempre insidie in modo nascosto ai gradi più elevati della scala delle virtù, per far cadere a terra il fedele che sta lottando. Alla prospettiva di questa “pace in Cristo” che si può sperimentare attraverso uno stile di vita ascetico bisognerà collegare anche la “vera e perfetta letizia” la quale, secondo Francesco, consiste nella pienezza interiore e anche nella gioia che il frate prova perfino quando lo maledicono, lo disprezzano o lo respingono [49].

6. Consolidamenti spirituali e pratici: predicazione, riconciliazione con la creazione e glorificazione

Parallelamente all’istanza costante dell’acquisizione e della custodia della pace interiore attraverso l’ascesi, e quei momenti di pienezza nella relazione con Dio e con i suoi frati, Francesco non ignora il dovere profetico e apostolico della testimonianza per la pace. Questo contenuto non è connesso semplicemente con la rivelazione divina relativa al saluto di pace, ma anche con un grande dilemma che Francesco dovette affrontare quando, nei primi anni della sua conversione, mentre aveva attorno a sé pochissimi discepoli, si interrogò se doveva seguire la vita contemplativa della preghiera e della solitudine o la via nuova e piena di pericoli della predicazione continua. Alla fine, con l’aiuto di Dio e il consiglio di Chiara, scelse la seconda via, quale perpetua condizione di vita e componente fondamentale della forma di vita francescana [50]. Il caratteristico saluto, come ci informano le fonti, a volte in modo allusivo, a volte in modo più esplicito, era indissolubilmente legato al contenuto della predicazione. Il primo biografo di Francesco racconta di lui: “Il valorosissimo soldato di Cristo passava per città e castelli annunciando il Regno dei cieli, la pace, la via della salvezza, la penitenza in remissione dei peccati; non però con gli artifici della sapienza umana, ma con la virtù dello Spirito (1Cor 2,4)” [51]. È probabile che l’autore caratterizzi Francesco come soldato per influenza dalla terminologia tipica degli ordini cavallereschi dell’epoca [52], con cui evidentemente l’Ordine dei Minori non presenta quasi nessuna analogia, tanto nella struttura quanto nelle priorità spirituali. E tuttavia, la similitudine rimane felice non solo a causa del quasi ironico gioco di parole, ma anche perché rimanda alla violenza e alla combattività della prima giovinezza cavalleresca e militare di Francesco, la quale ora è posta semplicemente a servizio di uno scopo radicalmente opposto.

Infatti, il già ambizioso cavaliere che con zelo si gettava armato nelle battaglie, adesso ormai guidava un picoclo esercito, armato con la semplicità della sua parola, la preghiera [53] e le sue buone opere [54] cercando di seminare in nome di Cristo la riconciliazione tra le città italiane che si dilaniavano a vicenda [55]. L’intensa memoria del “nuovo evangelista” (novus evangelista) [56] della pace sarà mantenuta viva anche dal lontano erede alla guida dell’ordine, nonché biografo “ufficiale” di Francesco, Bonaventura, il quale annota: “In ogni sua predica, all'esordio del discorso, salutava il popolo con l’augurio di pace, dicendo: ‘Il Signore vi dia la pace![57]. Aveva imparato questa forma di saluto per rivelazione del Signore, come egli stesso più tardi affermò. Fu così che, mosso anch’egli dallo spirito dei profeti, come i profeti annunciava la pace, predicava la salvezza e, con le sue ammonizioni salutari, riconciliava in un saldo patto di vera amicizia moltissimi, che prima, in discordia con Cristo, si trovavano lontani dalla salvezza” [58].

Qui la la testimonianza della pace è il traboccare dell’amore e della pienezza interiore nella forma di un invito a una vita di amore e di riconciliazione. Soprattutto, si tratta di un invito aperto, che non è limitato soltanto ai cristiani che sembrano aver perso la loro bussola spirituale, ma anche ai non cristiani. I relativi precetti dello stesso Francesco sono contenuti nel capitolo 16 della Regola non bollata che reca come titolo: “Di coloro che vanno tra i Saraceni e gli altri infedeli”. In questo capitolo Francesco sottolinea che i frati devono comportarsi “spiritualmente” davanti agli infedeli e distingue due modi o piuttosto due atteggiamenti interiori dei frati, che mostrano l’influenza determinante del contenuto di pace della predicazione sulla modalità della sua espressione. Il primo modo consiste nell’evitare le contese e le liti verbali e nella semplice confessione della fede cristiana. Il secondo consiste nell’annuncio della parola divina, con discrezione, affinché gli ascoltatori possano credere ed essere battezzati [59]. Anzi, sapendo che l’impresa della predicazione tra gli infedeli può risultare fatale, lo stesso Francesco si affretta a ricordare ai suoi fratelli che colui che rimane fedele fino alla fine sarà salvato [60]. Celano sottolinea in proposito che la predicazione francescana tra gli infedeli ha un duplice movente: “la salvezza del prossimo e il desiderio del martirio” [61]. Tuttavia, come nota uno studioso contemporaneo, tenendo conto che il testo fa riferimento anche alla sottomissione dei predicatori ai destinatari dell’annuncio, “l’unico martirio” che Francesco desiderava, “era la perfetta testimonianza” [62]. Sempre sulla base dei testi e anche delle descrizioni della sua unica [63] esperienza missionaria in Egitto [64], noi vorremmo aggiungere che il suo unico scopo era la perfetta testimonianza della pace in Cristo.

7. La riconciliazione con la creazione

Una manifestazione della personalità e della testimonianza di Francesco non meno impressionante e ugualmente commovente è quella che riguarda la creazione. Come sottolineano le relative fonti biografiche e secondo l’analisi degli studiosi contemporanei, nell’atteggiamento di Francesco nei confronti della creazione si può individuare il significato più pregnante del termine latino innocentia, che rimanda in modo evidente alla condizione della giustizia primordiale [65]. Tuttavia, nonostante la sua giustificazione biblica, l’interpretazione particolare della pace con la creazione che Francesco elabora rimane nei limiti di una innocua ma statica passività. In altre parole, ignora l’atteggiamento militante del cristiano che difende attivamente tutte le creature senza distinzione proprio perché ciascuna di esse, anche quella più disprezzata, calunniata, pericolosa o insignificante, costituisce una testimonianza vivente della libertà creazionale e dell’amorevole provvidenza di Dio.

Dietro al toccante racconto del celebre accordo tra Francesco e il lupo [66], che minacciava gli abitanti di Gubbio, non è difficile discernere le conseguenze dei dissodamenti intensivi che avevano scacciato gli animali dal bosco e dal loro ambiente naturale, evidentemente allo scopo di accrescere il profitto. Anche se Francesco rimprovera il lupo perché assale gli uomini, tuttavia la soluzione che gli propone, cioè di rimanere in città e di accettare il nutrimento dai suoi abitanti, mostra di riconoscere all’animale quei diritti che Dio gli aveva concesso ma di cui gli uomini lo hanno privato. Press’a poco seguendo la stessa logica, Francesco cerca di imporre a tutti gli uomini l’obbligo, nel giorno di Natale, di offrire del cibo non solo ai poveri, ma anche agli uccelli e agli animali che si trovavavo nella mangiatoia accanto a Cristo neonato [67]. Altrove, ancora, leggiamo dell’insistenza e degli argomenti teologici con cui egli strappò una torma di tortore alle mani di un tale che aspirava a venderle, e dopo egli costruì loro un nido perché facessero compagnia ai frati come animali domestici [68]. Nessuno però deve dimenticare che questo suo atteggiamento assolutamente positivo nei confronti della creazione ha un contenuto eminentemente teocentrico. Per questo, mostrava un amore particolare nei confronti di alcuni animali, come le allodole [69], che gli ricordavano i fratelli umili, o un agnello che se ne stava tranquillo tra i cinghiali, perché gli ricordava il Cristo in mezzo ai farisei e ai membri del sinedrio [70], e invocava la riconoscenza naturale degli animali irrazionali nei confronti del Creatore allo scopo di dare una lezione o criticare gli uomini dotati di ragione, che avevano dimenticato la loro origine divina e il loro traguardo spirituale. Il suo amore profondo verso la creazione spesso combina in modo mirabile il suo temperamento poetico con la riconoscenza verso Dio. Allora, ogni cosa si trasforma in occasione e invito alla lode del comune Creatore: il vento e gli uccelli, i fiori e la luce della luna, perfino la stessa morte [71], che lo porterà vicino allo Sposo amato.

8. Conclusioni

Se uno ascolta con attenzione la testimonianza francescana della pace, ha la sensazione di poter seguire mentalmente le tappe spirituali dell’asceta italiano, dalla sua drammatica conversione fino al compimento della sua vita in Cristo. Le fonti mostrano come il suo cammino verso l’acquisizione e la diffusione della pace e della riconciliazione sia stato erto, pieno di difficoltà e di fatica, una salita verso il Golgota della sua consumazione sacrificale sulla croce. Il dono divino della riconciliazione si è consolidato con la purificazione ascetica dalle passioni e la rappacificazione con il prossimo, per poi dilatarsi in compassione attiva e in amore verso tutta la creazione intera. Tuttavia, neppure gli ultimi momenti di Francesco sono stati privi di tensioni. Due anni prima della sua morte, egli si ritira dalla guida dell’ordine, e sente con sofferenza gli scricchiolii della divisione che minano l’unità della comunità. Un gelido mattino, sul monte della Verna, dove si è rifugiato per dedicarsi all’ascesi e alla preghiera, il suo corpo è adornato con le cinque piaghe del Crocifisso. Il compimento spirituale di Francesco possiede lo stesso carattere doloroso, ‘agonistico’ e sacrificale che la sua intera vita ha avuto. Per questo costituisce anche la conferma dell’unica sua meta: la sua unione con l’unico datore e garante della vera pace e riconciliazione.

La testimonianza dell’esperienza, dell’ascesi, della lode e dell’amore di Francesco somiglia a un abbraccio aperto, disposto a stringere tutti e tutto, dal momento che tutto si è trasformato in realtà fraterna: i cristiani, gli uomini di altre religioni, gli animali, i fiori, l’aria e le pietre. Per questo costituisce anche un precoce e durevole esempio di dialogo interreligioso e intercristiano. Lo “spirito di Assisi” dal 1986 [72] fino ad oggi continua a dare un senso palpabile alle istanze del dialogo ecumenico e a mantenere viva la speranza dell’unità nell’amore tra i cristiani. In nome di questo spirito francescano si può comprendere non solo il ruolo eminente che il santo italiano cattolico-romano occupa nell’ambito di un convegno di spiritualità ortodossa, ma anche lo stentato tentativo di un teologo greco-ortodosso di balbettare la sua lontana ma sempre preziosa e durevole testimonianza sulla pace.

[1] Allo “stato della pace” fa riferimento anche uno dei più appassionati studiosi di Francesco. Cf. Th. Matura, Francesco parla di Dio. Studi sui temi degli Scritto di San Francesco, Milano 1992, p. 15.

[2] Per le necessità del presente studio utilizzo l’ultima edizione compatta in italiano delle primitiva fonti francescane che includono gli scritti che la ricerca contemporanea attribuisce a Francesco, e le restanti primitive fonti francescane, che si estendono cronologicamente dalla sua morte fino circa al termine del XIV secolo. Cf. Fonti Francescane. Scritti e biografie di san Francesco d’Assisi. Cronache e altre testimonianze del primo secolo francescano. Scritti e biografie di santa Chiara d’Assisi. Testi normativi dell’Ordine Francescano Secolare, a cura di E. Caroli, Padova 2004 (d’ora in poi FF).

[3] Cf. Mt 11,12.

[4] Ε. Leclerc, “Francesco, uomo di pace”, in La spiritualità di Francesco d’Assisi, a cura dei redattori di Evangile aujourd’hui, trad. it. Maria Vimercati e E. Branca, Milano 1993, p. 322.

[5] Per le esperienze di guerra di Francesco cf. Tommaso da Celano, Vita Seconda: FF 584-587, pp. 364-366.

[6] Per una penetrante analisi del profilo psicologico di Francesco, basata sulle relative fonti, cf. R. Zavalloni, La personalità di Francesco d’Assisi. Studio psicologico, Padova 1991

[7] Testamento, FF 110, p. 99.

[8] Tommaso da Celano, Vita Seconda 10: FF 593, p. 369

[9] Cf. Mt 10, 37-38; 12,50. Si veda la Lettera ai fedeli (II): FF 184, p. 135.

[10] Sul tema cf. indicativamente K. Esser, Temi Spirituali, trad. di una Clarissa del Monastero di Milano, Milano 19813, pp. 139-188.

[11] Tommaso da Celano, Trattato dei miracoli di san Francesco, FF § 822, p. 517.

[12] Cf. M.-D. Chenu, La teologia nel xii secolo, Introduzione di I.Biffi, a cura di P. Vian, Milano 19922, pp. 289-307.

[13] Cf. in proposito Tommaso da Celano, Vita Prima, ΧVI: FF 609-611, pp. 377-378.

[14] Cf. Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura di G. Alberigo, G. L. Dossetti, P.-P. Joannou, Cl. Leonardi, P. Prodi, Bologna 1996 (edizione bilingue), p. 242.

[15] Giacomo da Vitry, Historia Occidentalis, 1 II, cap. 32: FF 2215, p. 1464.

[16] Col 1,20.

[17] Lettera a tutto l’Ordine I: FF 217, pp. 147-148.

[18] Cf. Gv 10,15.

[19] Cf. Gv 17, 6.

[20] Lettera ai fedeli (I): FF 178a, p. 132. Rintracciamo un brano simile in una delle lettere di Chiara: “Lui per tutti noi sostenne il supplizio della croce, strappandoci dal potere del  Principe delle tenebre, che ci tratteneva avvinti con catene in conseguenza del peccato del primo uomo, e riconciliandoci con Dio Padre” (Lettera prima ad Agnese di Boemia 12: FF 2863, p. 1806).

[21] Lettera ai fedeli (II): FF 179, p. 134.

[22] Testamento: FF 121, p. 101. Cf. anche il celebre saluto di pace che Francesco include nella concisa e autografa Benedizione a frate Leone: FF 262, p. 177.

[23] Cf. indicativamente Compilazione di Assisi 101: FF 1640-1642· Specchio di Perfezione 26: FF 1710-1711, p. 1028-1029.

[24] Cf. Mt 25.

[25] Cf. indicativamente Αngelo Clareno, Cronaca delle sette tribolazioni, I, 8, FF 2116, p. 1388.

[26] Cf. Mt 6,24.

[27] Cf. Mt 6,25-30.

[28] Leggenda dei tre Compagni 35: FF 1438, σ. 816. Commentando questo preciso brano della Vita di Francesco, un pensatore russo fa notare che l’asceta italiano era sicuro che “la proprietà è madre della guerra, mentre la povertà della pace” (D. Merežkovskij, Francesco d’Assisi, trad. it. L. Malavasi, pref. di P.-C. Bori, 1996, p. 143).

[29] Ufficio della Passione V: FF 303, p. 216.

[30] Cf. 1Tm 2,4.

[31] Cf. Gv 8,32.

[32] Cf. Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Lettera agli Efesini 5, PG 62, 40-41.

[33] Ammonizioni X, ΧΙV: FF 159, 163 p. 113, 114.

[34] Per le varie accezioni dell’autoabnegazione nell’esperienza di Francesco, cf. anche K. Esser, Temi Spirituali, pp. 37-65.

[35] Lettera ai fedeli (I), 1: FF 178/1, p. 131.Cf. Lettera ai fedeli (II), 195: FF 195, p. 82: “Dobbiamo avere in odio i nostri corpi con i vizi e i peccati”. Sul conflitto tra corpo e anima negli Scritti di Francesco cf. C. Paolazzi, Lettura degli “Scritti di Francesco d’Assisi, Milano 19922, pp. 171-180.

[36] Tommaso da Celano, Vita Seconda 21: FF 607, p. 376.

[37] Tommaso da Celano, Vita Seconda 116: FF 703, p. 440.

[38] Cf. Palladio, Storia lausiaca 38,11 (ed. G. J. M. Bartelink, Milano 1990): “Il demone della lussuria lo tormentò [i. e. Evagrio] gravemente, com’egli stesso ci raccontava; e per tutta la notte d’inverno rimase nudo nel pozzo, di modo che le sue membra si fecero di ghiaccio”.

[39] Regola non bollata ΧVI: FF 49, p. 78

[40] Ammonizioni ΧV: FF 164, p. 114.

[41] Regola bollata X: FF 104; Ammonizioni ΧΙΙΙ: FF 162, p. 114.

[42] Cf. Cantico di frate sole: FF 263, p. 180; «Audite Poverelle»: FF 263a, p. 183.

[43] Cf. indicativamente Regola non bollata ΧΙ: FF 46-37, pp. 72-73.

[44]  Cf. indicativamente Regola non bollata VII: FF 26, p. 68.

[45] Ammonizioni XΙ, FF 160, p. 113

[46] Cf. indicativamente Regola non bollata Χ: FF 34-35, p. 72.

[47] Cf. indicativamente Ammonizioni XVIII, FF 167-168, pp. 115.

[48] Tommaso da Celano, Vita Seconda 22: FF 608, p. 377

[49] Della vera e perfetta letizia: FF 278, pp. 193-194

[50] Fioretti XVI: FF 1845, pp. 1159-1160

[51] Tommmaso da Celano, Vita Prima 36: FF 382-383, p. 274

[52] Cf. la nota relativa del curatore dell’opera particolare nel volume: FF, p. 274, n. 66.

[53] Tommaso da Celano, Vita Seconda 163:FF 747, pp. 468-469.

[54] Regola non bollata XVII:FF 46, p. 77; cf. Regola bollata IX::FF 99, pp. 95-96.

[55] Secondo la testimonianza di un suo contemporaneo, Francesco nel 1222, mentre preciaca nella piazza di Bologna, con le sue parole “perseguiva la cessazione del conflitto e la fondazione di nuove condizioni di pace” (Tommaso da Spalato, Historia Pontificium Salonitanorum et Spalatensium, MHG, Scriptores XXIX, 580. Cf. FF 2252, p. 1482).

[56] Tommaso da Celano, Vita Prima 89:FF 476, p. 309

[57] Gv 14,27.

[58] Bonaventura, Leggenda maggiore ΙΙΙ, 2: FF 1052, p. 615. Cf. Leggenda minore ΙΙ Lezione II: FF 1340, p. 758.

[59] Regola non bollata ΧVI, 6-7:FF 43, pp. 75-76. I “due modi” della predicazione agli infedeli sono stati tralasciati dal capitolo corrispondente della Regola bollata: cf. Regola bollata XII, FF 107-109a, p. 98.

[60]

[61] Tommaso da Celano, Vita Seconda 152: FF 736, σ. 462. Πρβλ. Bonaventura, Leggenda maggiore IX: FF 1172, p. 667.

[62] D. Solvi, «Ι Fioretti di san Francesco”, Vita Minorum 84 (2013), p. 115.

[63] Secondo le fonti erano state programmate anche altre campagne missionarie di Francesco che però non furono realizzate. Cf. in proposito Celano, Vita Prima 55-56: FF 417-420, pp. 286-288.

[64] Sul suo viaggio in Egitto che culminò nel celebre incontro con il Sultano di Babilonia Melek-Al-Kamel, cf. Celano, Vita Prima 57:FF 421-423, p. 288; Bonaventura, Leggenda maggiore IX, 8:FF 1173-1174, p. 668-669. Per un confronto sintetico delle testimonianze storiche su questo argomento, cf. F. Cardini, Francesco d’Assisi, Roma 20016, pp. 195-198

[65] Cf. indicativamente Celano, Vita Seconda CXXIV-CXXV: FF 750-751, pp. 470-472. Cf. Bonaventura, Leggenda maggiore VIII, 1: FF 1134, p. 654.

[66] Fioretti ΧΧΙ: FF 1852, p. 1170-1172.

[67] Specchio di perfezione 114: FF 1814, p. 1114.

[68] Fioretti ΧΧΙΙ: FF 1853, pp. 1172-1173.

[69] Specchio di perfezione 113: FF 1813, pp. 1113-1114.

[70] Tommaso da Celano, Vita prima 76: FF 456, p. 301.

[71] Cantico di frate sole: FF 263, pp. 179-180.

[72] Cf. P. A. Yfantis, «La pace come esperienza di Dio e impegno spirituale. Una riflessione ortodossa sullo “spirito di Assisi” venticinque anni dopo», in Vita Minorum 82 (2011), pp. 105-116.